Quarantotto anni a capo dell’FBI sono abbastanza per vedere il proprio nome comparire su quasi ogni libro o romanzo americano ambientato nel ventesimo secolo: J. Edgar Hoover è una delle figure più citate, ambigue e misteriose della storia americana.

Nonostante questo, sono pochissimi i casi di scrittori che, al di fuori della raccolta di biografie non ufficiali (lo stesso J. Edgar scrisse un’autobiografia, come raccontato da Clint Eastwood nel film in uscita il 4 gennaio), hanno cercato di farne il protagonista dei propri racconti di fiction, scavando lì dove a uno storico (che per metodo è costretto a ragionare per dati e raccolta di prove) non sarebbe permesso.

Don DeLillo nel suo Underworld (1997) e lo James Ellroy della Trilogia Americana di American Tabloid (1995), Sei pezzi da mille (2001) e Il sangue è randagio (2009) sono senza dubbio i più conosciuti (e probabilmente gli unici, ma dirlo con certezza è sempre un azzardo vista la quantità di libri che vengono pubblicati ogni giorno), ad essersi presi l’onere di entrare nella testa di un Hoover e farlo muovere secondo le proprie “esigenze di copione”.

In Underworld DeLillo (che con il suo Libra, sull’omicidio di John Kennedy, aveva ispirato proprio la trilogia di Ellroy) ci presenta un Hoover intimo, al tavolo con il suo caro protegé Clyde Tolson. I due sono invitati a una cena di gala, e come mostra Eastwood in un’emblematica sequenza del suo J. Edgar, anche davanti l’interesse manifesto delle donne, il capo dell’FBI non riesce a dire e fare la cosa giusta nonostante sia ciò che vorrebbe più di ogni altra cosa al mondo. La sua omosessualità è repressa prima di tutti da lui stesso, e il conflitto tra la ragione e la natura sfocia in imbarazzo e aggressività. Se con Eastwood Hoover è sì un manipolatore, ma a suo modo fragile e lunatico, nel racconto che De Lillo gli riserva nel suo corale Underworld ad essere messa in evidenza è anche la sua sprezzante arroganza verso tutto e tutti.

Ben diverso il discorso con Ellroy che, come è suo solito, i personaggi li tratteggia attraverso azioni e dialoghi. Hoover così diventa la voce di tante trascrizioni telefoniche, il falsificatore di documenti anti Martin Luther King, un uomo con le mani in pasta in ogni ambito della malavita, dal Ku Klux Klan alla mafia italiana, passando per quella cubana intrisa di Jimmy Hoffa e Howard Hughes. Eastwood e il suo sceneggiatore Dustin Lance Black (lo stesso di Milk) hanno deciso di soprassedere (così come lo ha fatto Stephen King nel suo ultimo romanzo 11/22/63 sull’omicidio di JFK), ma secondo Ellroy (che a sua volta si è basato su molte ricerche abbastanza verosimili) Hoover sapeva della preparazione degli omicidi dei due Kennedy e di King, anzi, soprattutto quello di Bobby fu una delle sue più grandi soddisfazioni (in J. Edgar si vede che i due non si amano, ma non c’è traccia di complicità del capo dell’FBI nell’assassinio del senatore). Senza dubbio Eastwood ha voluto parlare soprattutto del difficile rapporto tra potere e omosessualità, del tradimento prima di tutto verso se stesso che Hoover ha perpetrato per tutta la sua esistenza (un tradimento che non riguarda solo la sfera sentimentale, ma anche i meriti delle sue azioni e strategie politiche), mettendo in secondo piano l’ambientazione e i collegamenti storici. E’ proprio per questo che, forse, nonostante le due ore e mezzo di pellicola, alla fine dell’Hoover rappresentato in J. Edgar ne esce solo un quadro parziale.

 

 

 

Della presunta omosessualità di Hoover si parlò del resto quando lui era ancora in vita: Woody Allen lo fece interpretare da una donna, Dorothi Fox, in Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), mentre le voci di una sua relazione più che stretta con Tolson (che non a caso ne ereditò quasi tutti i beni) erano già sulla bocca di tutti, nemici e non. Nel 1977, a cinque anni dalla morte, il film The Private Files of J. Edgar Hoover (pellicola nata sulla falsariga del cinema post-Watergate che rimise in discussione l’intero modus operandi della politica interna americana) si interrogava in maniera esplicita sui suoi orientamenti sessuali e così fece Anthony Summers nel 1993 nel libro The Secret Life of J. Edgar Hoover, ad oggi forse la biografia più completa e conosciuta su di lui. Tra i tanti, solo Summers cerca, seppur solo in alcuni frangenti, di mettere in luce come le stesse alte sfere del potere statunitense proteggessero il segreto di Hoover per non rischiare di essere ripagati con la stessa moneta (l’immenso archivio di gossip nelle sue mani era una garanzia sulla vita), facendo di Hoover e delle sue ambiguità l’emblema di un intero periodo storico americano. Il fatto che nonostante le comprovate negligenze e abusi di Hoover a lui sia ancora intitolata la storica sede dell’FBI a Washington dimostrano che il vaso di Pandora ancora non è stato scoperchiato del tutto.