Solo qualche settimana fa ci eravamo chiesti, a partire da un articolo di The Street e dalle polemiche evidenti che si sarebbero scatenate intorno alla partecipazione o meno di Netflix al festival di Cannes, cosa succederebbe se i giganti dello streaming acquistassero una catena cinematografica, se potesse essere interessante e utile per loro e come potrebbero cambiare quel tipo di business.

Oggi arriva notizia dal Los Angeles Times che Netflix avrebbe cercato di comprare la catena di cinema Landmark Theatres. La fonte sarebbero persone vicine ai coinvolti e l’acquisizione non si sarebbe concretizza perché il prezzo fissato dalla catena sarebbe stato giudicato troppo alto da Netflix.

Al discorso che avevamo fatto mancava forse proprio questo tassello: se Netflix (o Amazon) dovessero davvero comprarla una catena, quale gli converrebbe comprare?
Secondo il Los Angeles Times, Landmark era la scelta giusta. Si tratta infatti di cinema non troppo numerosi, una catena non gigantesca (23 cinema per un totale di 255 schermi in 27 città che comprendono ovviamente New York e Los Angeles, quelle fondamentali per il cinema di qualità, la corsa agli Oscar e la copertura stampa) e già dedita ad un cinema più vicino allo stile Netflix, film americani al pari di stranieri (che negli Stati Uniti è una rarità) e addirittura documentari. Landmark somiglia insomma alla più logica prosecuzione della loro attività online.

La catena Landmark era costata all’attuale proprietario (che possiede anche la distribuzione Magnolia Pictures) 40 milioni di dollari nel 2003, non tanto per una compagnia come Netflix che è valutata 130 miliardi di dollari.
Cosa sarebbe accaduto se l’acquisto fosse andato in porto? La prima cosa a cui viene da pensare è il problema della distribuzione con Cannes (il festival pretende che chiunque partecipi in concorso abbia una distribuzione in sala francese), ma in realtà la catena americana potrebbe essere un’arma in un’altra direzione, quella dei premi (per i quali spesso è indispensabile almeno un giorno di proiezione in sala) e della possibilità (come si diceva nell’altro articolo) di lavorare nell’esercizio usando i dati raccolti online.

Cosa guardano gli abbonati a Netflix di una certa città o di una certa zona? Quanto sono inclini a vedere documentari di un certo tipo o film di un certo tipo? Sono più spronati ad andare al cinema se il biglietto non lo pagano ed è compreso nell’abbonamento (che sarebbe a quel punto di un po’ maggiorato)?

Più in grande l’idea potrebbe essere quella di fondere qualcosa che non è mai stato fuso a quel livello di grandezza: produttore, distributore e canale televisivo per una categoria di titoli crossover arthouse, cioè di nicchia ma grandi, come Bright o come Cloverfield Paradox e tangenzialmente per tutta una serie di film intorno ai quali esiste grande interesse ma che le sale faticano a proiettare. Netflix diventerebbe l’unico soggetto a poter decidere sia cosa produrre che come mostrarlo, dove e quando, scegliendo tra schermi molto grandi, casalinghi, tablet o smartphone.

Sembra un accentramento pericoloso, tuttavia pensando a quello che sta accadendo alla visione e alla maniera in cui la visione domestica non sia più succedanea e secondaria rispetto a quella in sala com’era con l’home video ma spesso primaria per le serie tv e ora anche per i film, sembra sempre più logico che anche gli operatori siano gli stessi. Se già infatti le società di produzione che fino a ieri facevano film oggi fanno serie tv, allora anche i distributori che ieri lavoravano in sala possono lavorare sulla televisione e viceversa. Del resto una situazione simile (ma non identica) era quella di Medusa (produceva, distribuiva e aveva le reti Mediaset) o ora di Vision Distribution, il braccio in sala di Sky che spesso investe nei film, o infine della RAI (che però essendo servizio pubblico ha una grande quantità di vincoli che creano una situazione differente).

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