C’è un momento in Resident Evil: The Final Chapter in cui è particolarmente evidente quale sia il legame segreto che esiste tra questa saga e questa protagonista.

Uno più solido, indispensabile e saldo di qualsiasi altro ricordiamo nel cinema moderno e che può essere paragonato solo a quelli tra Fred Astaire e i suoi film. Solitamente è un autore ad essere indispensabile, raramente è un attore e quando lo è i motivi hanno più a che vedere con il successo che altro, non con la vera riuscita di tutta l’operazione. Non è così per Resident Evil.

Lo vediamo quando Alice viene incatenata al mezzo corazzato in stile Mad Max e costretta a corrergli appresso. Legata con una catena corta, dietro di lei il classico fiume di non morti ad inseguirla.
Con dietro di lei un’orda immensa, infinita, che arriva fino all’orizzonte (ma cosa spinge gli ultimi a correre? Cosa sentono? Sono come le pecore che fanno tutto quel che fanno quelli avanti a loro? Le solite domande che è inutile farsi in una saga in cui tutto esiste per il suo effetto teatrale), Alice corre per non essere presa e il mezzo cui è legata davanti a lei va a passo d’uomo: “Nemmeno tu puoi correre per ore” le dice Iain Glen di nuovo nei panni del dr. Isaacs, che l’ha legata e intende così divertirsi a torturarla e possibilmente ucciderla. In quel “Nemmeo tu” già sta un’implicita ammissione di stupore che a volersi divertire con i riferimenti metafilmici sarebbe adeguata anche parlando del peso dell’attrice nel film: “Nemmeno tu che riesci a dare un senso ad ogni assurdità ci riuscirai con questa!”. In risposta lei lo guarda con un primo piano strettissimo che reca impresso il marchio di fabbrica “Jovovich”: una tenacia affascinante, figlia della bellezza ma anche di una durezza unica, così penetrante che ti convince senza bisogno di parole che il dr. Isaacs si sbaglia, che effettivamente può farlo, potrà correre per sempre.

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Non ce ne sarà bisogno ovviamente, come Alice si libererà rocambolescamente malmenando tutti, ma non è questo il punto adesso, non sono le assurde fughe e liberazioni di Alice, fatte di capriole, calci e pessimi montaggi che però comunicano bene il caos che è questo film, ma ciò che è al centro di questo vortice ad interessare: Milla Jovovich.
Questa scena è brutta come molte altre e un po’ scema, ma il fatto che ci sia un’attrice che dona concretezza a serietà a cose così assurde crea un’ansa di fascino strana e da cui non ci si stacca.

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Ognuno dei film di questo franchise è stato girato intorno a questa capacità di Milla Jovovich di convincere la videocamera anche dell’incredibile o implausibili o incoerente. A partire dal primo capitolo, in cui dimostrò che solo un fisico e un volto come il suo, uniti alla sua determinazione potevano dargli un senso. Quella di Resident Evil infatti era una storia nata per essere un progetto “prendi i soldi e scappa” uno dei molti adattamenti da videogiochi dell’epoca, operazione un tanto al chilo, molto di serie B, indirizzata unicamente a chi aveva giocato. Il risultato è stato un altro. Nel delirio di quel film (comunque minore rispetto a quel che sarebbe venuto dopo) emergeva una protagonista di certo non sconosciuta per quanto un po’ appassita quanto a star power, finalmente nel suo habitat naturale.

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Ci sono attori che hanno bisogno di certi film per avere un senso e al contrario film che necessitano di uno e un solo attore per avere un senso. Resident Evil non è niente senza Milla Jovovich, è una serie di brutte scene, con un pessimo montaggio e un cattivo sound design che cercano di tenere insieme una trama incoerente, confusa e caotica, puro pretesto per un po’ di exploitation, zombie, mostri e calci. Con Milla Jovovich invece è un trionfo di movimento e coerenza, un’ode alla resistenza e resilienza femminili, condotta attraverso quello che appare come l’unico corpo conduttore possibile. Il suo.

Anche solo considerando la recitazione da serie Z (confrontare Iain Glen qui e in Il Trono di Spade) Milla Jovovich è indispensabile. Le sue espressioni e la credibilità della maniera in cui rende la tigna e la rabbia, la furia e l’astio verso il mondo sono l’unica cifra attraverso cui poter leggere (e godere) le iperboli di Resident Evil. Se fosse per gli altri attori avremmo solo scene recitate male, il controcampo di Milla Jovovich, anche quando non dice niente, dà senso ad ogni interazione, la sua presenza così fumettosa, così eroica, massiccia e granitica sembra poter avallare anche il villain più scemo e i costumi più idioti (e non ne mancano eh). Tutto trova un senso in Resident Evil quando affiancato a Milla Jovovich.

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Attrice unica, non certo capace di fare tutto, ma incredibile quando si tratta di lavorare di tenacia (nel dimenticabile Giovanna D’Arco lei era una calamita, nel cammeo in Zoolander pure mostra il lato grottesco di questa propensione, in I Tre Moschettieri c’è pochissimo ma solo le scene in cui è presente sono davvero godibili, come se fosse l’unica a sapere come ci si diverte), Milla Jovovich non ha più trovato nulla come Resident Evil, motivo per il quale non l’ha più abbandonato. Non è infrequente che questo capiti nella vita di un attore, specie uno che fa film di genere (si guardi la storia d’amore tra Hugh Jackman e Wolverine). Quello che è raro semmai è che un film sia così dipendente da un attore non tanto per il successo ma per la sensatezza. Nonostante non scriva, non diriga, non metta bocca su fotografia, scenografia o montaggio, lo stesso l’impressione è sempre che Milla Jovovich sia l’autrice di Resident Evil, che sì tutto un pretesto per farla muovere con la dedizione che le è propria.

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