Arrivare alla sintesi di Akira è l’ambizione di quasi tutti i cineasti, ovvero riuscire a comunicare al di là della logica, parlare a milioni di persone senza dover passare per il filtro del cervello ma puntando dritti all’inconscio.

Il film di Katsuhiro Otomo, non è un mistero, è incomprensibile. Solo con una buona conoscenza della storia completa (dai fumetti) e una certa buona volontà nel colmare autonomamente i molti buchi della trama del film, è possibile trovare una reale logica a tutta la sua seconda metà. Tuttavia pochi film hanno generato fanatismo e contagiato le persone come Akira.

Dopo un inizio abbastanza chiaro, con ruoli, personaggi e dinamiche definite, il film ben presto scivola di mano ai suoi creatori e comincia a vivere di sole ambientazioni, di urla, esplosioni, di un senso di minaccia incombente e di violenza della società sugli individui che non necessita di un intreccio per penetrare negli spettatori. Non si capisce nulla ma è terribilmente comunicativo.

Andare a rivedere Akira al cinema oggi, 29 maggio, è quasi obbligatorio. Perchè tranne pochi fortunati l’abbiamo tutti quanti visto su un piccolo schermo e ne siamo rimasti folgorati, ma quella follia da un miliardo yen (più di 10 volte i normali budget dell’animazione giapponese di quegli anni) nasceva per esaltare il desiderio titanico di animazione nel cinema.

Introvabile per anni e oggi trovabilissimo ovunque, solo nella sua versione cinematografica è ancora una scoperta rara.

Uscito nel 1988, arrivato in Italia sull’onda di un apprezzamento mondiale (e dell’esigenza delle diverse case di produzione che si erano messe in inseme per realizzarlo di rientrare dei folli costi di produzione), il film ha avuto vita breve e difficile al cinema, per quanto sia stato un apripista per tutti gli altri film d’animazione nipponici a seguire, Miyazaki in testa, ma si è rifatto con il mercato Home Video e con i passaggi televisivi.

Distribuito nelle fumetterie e registrato a tarda notte su Rai3 all’interno di Fuori Orario di Ghezzi, Akira è stato un prodotto difficile da recuperare eppure visto da tutti, assecondando quell’ossimoro tra introvabilità e diffusione che è l’oggetto del desiderio di qualunque distribuzione (essere cercati eppure essere ritenuti introvabili).

Per tutti gli anni ‘90 Akira ha dominato l’immaginario collettivo legato agli anime, lanciando in Italia una serie di altri film straight to video e creando da solo una cultura di fruizione domestica di prodotti estremi. Fino almeno all’arrivo nel 2001 del cinema di Miyazaki attraverso La Città Incantata (già La principessa Mononoke si era fatto notare ma non aveva sfondato realmente), il film di Katsuhiro Otomo è stato il simbolo di un intero paese e di un modo di fare, del procedere verso l’animismo, della fissazione di quegli anni (‘70 e ‘80) nei confronti dell’apocalisse (cosa a cui il pubblico italiano era stato ben abituato dall’animazione per la tv) e di un modo totalmente nuovo, per noi, di intendere l’animazione.

Il cartone per adulti fino a quel momento, per quanto se ne potesse sapere in Italia, era Fritz il pornogatto, roba dai toni fumettistici sessantottini con qualche audacia sessuale. Akira porta in scena interiora che escono dal corpo, gente che esplode, visioni agghiaccianti, eredità di un passato infantile che tormentano, il senso d’umiliazione adolescenziale di fronte all’inadeguatezza personale, violenza insostenibile e un mood disperato e soffocante, perfetto per la generazione del grunge e del punk depresso degli anni ‘90. E’ un cartone per adulti che non si interessa del sesso ma si interessa di tematiche adulte, di strutture mature e poco lineari, che ritiene i propri spettatori ben più intelligenti di quanto la media degli altri film non facciano.

Un cartone per adulti che abbiamo visto da ragazzi e forse è anche il caso di guardare da adulti.

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