Thelma & Louise: 30 anni del fermo immagine finale degli anni ’90

In tutti gli anni ‘90 non c’è stato fermo immagine più cruciale di quello che chiude Thelma & Louise. Non lo è stato quello di Pulp Fiction (alla fine dell’intro, prima di Misirlou) o quello di Quei bravi ragazzi (prima della frase: “Che io mi ricordi ho sempre voluto fare il gangster”). La chiusura del film di Ridley Scott del 1991 è una maniera di rimescolare le carte di I 400 colpi: fa la stessa cosa, ma con il risultato opposto. Non un modo di ingabbiare il protagonista, privo di via d’uscita e bloccato anche dalla pellicola, ma la liberazione delle protagoniste la cui avventura ha un finale scritto ma non mostrato.
Come molto di ciò che ha fatto la storia del cinema però non era la sola opzione.

Callie Khouri veniva dalla produzione di video musicali, un business florido a fine anni ‘80, e Thelma & Louise era stata la sua prima sceneggiatura, concepita in un viaggio in auto, vagamente ispirata a un’esperienza personale con la cantante Pam Tillis. Sarebbe stata una delle sceneggiature più importanti di quegli anni per unicità e durezza, ma aveva bisogno della mano e della sete di novità di Ridley Scott. Così com’era non aveva niente del fascino del film finito, era solo atto. Ha girato infatti non poco per gli uffici dei principali studi di Hollywood prima di arrivare alla casa di produzione di Scott nel momento giusto, quando il regista titolare aveva bisogno di cambiare la maniera in cui veniva percepito ad Hollywood. Lui stesso inizialmente innamorato del progetto non era certo di dirigerlo e lo propose a diversi nomi dell’epoca (tra cui Richard Donner), prima di capire che era la sua svolta. Era il regista dei filmoni spettacolari, futuristici, d’azione, ma non del cinema di personaggi.

 

thelma louise auto

 

Sempre a detta dello stesso Scott, la ragione per la quale nessuno aveva preso ancora quella sceneggiatura eccezionale, era il fatto che ad Hollywood, principalmente negli studios, la percezione della storia era “due stronze in macchina”. Lui invece era percepito fin da Alien come un regista femminista, per l’aver messo una donna in un ruolo che di solito va ad un uomo (cosa che un po’ fa sorridere e pensare all’ignoranza dei produttori, visto che Alien è anche uno slasher mascherato, genere nel quale al mostro si oppone una donna), e quella storia femminista era da subito nelle sue corde. E, di nuovo, era esattamente quello di cui aveva bisogno in quel momento della sua carriera.

Il film come gli era arrivato non era esattamente quello che conosciamo, aveva un altro tono, molto più semi-documentaristico, mentre Scott aveva bisogno di grandi pubblici (“il cinema è un’arte costosa, serve il pubblico più grande possibile”), doveva farne un ottovolante. Se Callie Khouri veniva dai videoclip lui (prima del suo esordio al cinema) veniva dalla pubblicità, due tipi di produzioni che puntano tantissimo sulla dimensione estetica. In Thelma & Louise infatti tutto è tagliato per essere accattivante, bello, sorprendente e visivamente affascinante.
Considerato tutto questo quel finale era la parte più spinosa e infatti la corsa dell’auto fu filmata per intero, fino alla fine. Un’idea iniziale era di mostrare la caduta e poi in un’immagine separata l’auto che continua a correre in uno scenario che potrebbe essere l’aldilà. La scena è stata inclusa nell’edizione DVD e Blu-Ray e contiene un’inquadratura con l’elicottero che si tuffa nel canyon che è pazzesca.

 

 

Un altro finale vagliato e non ripreso lo ha raccontato Susan Sarandon e prevedeva che Louise cacciasse Thelma fuori dalla macchina all’ultimo, salvandola. Un finale solo falsamente conciliatorio che avrebbe ribaltato il senso di tutto, affermando che non morire in quella situazione è un atto magnanimo, mentre il film come lo conosciamo afferma che vivere sarebbe stato peggio che morire.
Così arriva il freeze frame che Roger Ebert all’epoca giudicò come la parte peggiore di un film che aveva amato perché sfumava sul bianco troppo presto, levando emotività ad un momento che ne avrebbe potuta avere molta di più: “…ci vogliono 128 minuti per arrivare ad un payoff di cui il regista sembra aver paura”.

Di fatto questo fermo immagine, riprendendo quello finale di Butch Cassidy che bloccava i protagonisti un attimo prima della morte, ne sovverte l’idea di fondo. Redford e Newman sembravano condannati a quel destino e morire quasi per nichilismo, Thelma e Louise invece muoiono nelle terre selvagge, il posto che era stato per decenni il luogo cinematografico della virilità, e che negli anni della psichedelia era diventato anche un posto di allucinazioni, visioni e spiritualismo. Muoiono per non essere schiave e non perché schiave di un destino. Muoiono per rinascere libere.
Di nuovo l’esatto opposto di un altro celebre finale con incidente mortale, quello di Il sorpasso, in cui (senza fermo immagine) vediamo per intero le sue conseguenze del volo dalla scarpata. Questo perché lì deve funzionare come un macigno sul confronto tra vecchia Italia e nuova Italia del boom, con la seconda che sopravvive mentre la prima che si era ormai corrotta, che deve morire.

 

 

La cosa molto interessante che alla fine dice il film è, di nuovo e non a caso, visiva. Non c’è niente di libertario nel vedere la morte. L’atto in sé non racconta la libertà, solo fermandosi prima, lasciandola intuire ma non mostrandola è possibile trasformarla da sconfitta (quale è) in vittoria (quale può essere solo a livello teorico). È un trucco eccezionale da vero cinema e da vero regista che ragiona per immagini e tramite esse piega il senso della scrittura: ribaltare un momento di sceneggiatura usando solo l’arma del montaggio. Scardinare una convenzione stabilita da tanti altri film negando la conclusione più scontata.

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