La sezione Realtà Virtuale di Venezia ha un concorso e un fuori concorso, una giuria capitanata da John Landis e tutte opere inedite in anteprima mondiale (tranne due scelte tra il meglio uscito quest’anno nel settore). Insomma è l’appuntamento più completo di tutti nel settore, senza alcun dubbio. Siamo andati a provare quanti più progetti è possibile nella sua sede lo spazio sull’isola Lazzaretto Vecchio (a 10 minuti di distanza dai luoghi del festival da colmare con una navetta-motoscafo).

Ci sono tre tipi di realtà virtuale: le installazioni, gli stand-up (quelle da fare in piedi) e il VR Theatre, quelle in cui si sta seduti, si può guardare in tutte le direzioni ma non muoversi nel mondo virtuale.
I progetti presentati sono 22 e non era possibile provarli tutti in una sessione sola, quindi abbiamo scelto anche in base a quanto sembrassero promettenti, cercando di avere uno spettro ampio sui tre tipi di RV per poter dare un giudizio. Il risultato è stato molto più che confortante.

Prima di passare al racconto dei progetti occorre specificare che chi scrive ha provato tutte le realtà virtuali disponibili nei festival di cinema europei degli ultimi anni, più diverse tipologie di ultima generazione di carattere videoludico, e nulla ha superato quel che è in mostra nella sezione Venice VR.

VR THEATRE

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Si tratta della parte più simile al cinema. Si sta seduti su sedie girevoli e ci si guarda intorno. I visori sono telefoni cellulari Samsung, quindi non il top della gamma e nemmeno della risoluzione.

Gomorra VR – We own the streets di Enrico Rosati

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Sulla carta il progetto meno promettente, una versione di qualche minuto di Gomorra, la serie, girata in Realtà Virtuale. Una trama molto esile e in pieno stile Gomorra (una coppia di ragazzi ruba delle armi ma viene fregata e gli uomini di Malammore li inseguono e beccano). Più un’apertura e chiusura affidate ad un monologo di Marco D’Amore/Ciro di Marzio e un pianosequenza di Genny Savastano. Cioè due talent che fanno un’apparizione e altri attori che svolgono un corto tutto in RV.
Il risultato invece è sorprendente. Perché il corto ha la medesima fotografia, i medesimi ambienti, i medesimi costumi, taglio e tono della serie, è quel mondo che già ben conosciamo ma ripreso a 360°. Si parte con un drone su Scampia poi si va nei garage, nelle case distrutte e in costruzione, c’è una grande scena sui tetti e una drammatica con pistole. A tutti gli effetti è Gomorra, senza freno a mano (anzi diretto molto bene davvero!), ma con la possibilità di guardarsi intorno. E proprio l’idea di applicare questa tecnologia ad un prodotto che si fonda così tanto sul suo ambiente e sui suoi luoghi è perfetta. Delle RV provate sembra la più adatta al cinema.

Bloodless di Gina Kim

img_20170829_195931Corea del Sud e sangue nel titolo, sembrava difficile sbagliare. Invece sì. Bloodless è una maniera di mostrare qualche minuto in alcuni punti di un luogo tra Corea del Nord e Sud in cui i militari americani hanno il permesso di fare esercitazioni e mettere basi. Da decenni ormai è una terra di nessuno. Tuttavia c’è una città e soprattutto c’è un traffico di prostituzione elevatissimo.
Gina Kim piazza la sua VR Camera in punti strategici per riprendere il niente, la quotidianità delle strade con i suoi rumori, gente che passa, prima di giorno, poi di notte. Ad un certo punto si sentono passi, arriva una donna che tornerà in tutte le prossime inquadrature. Possiamo guardare dove vogliamo ma sentendo i passi cerchiamo lei. Si tratta di una prostituta. Dopo diverse strade alla fine ci si trova in uno squallido cubicolo minuscolo, una cella senza sbarre ma con una porta, un luogo in cui supponiamo essere dove dorme. In questo luogo terribile e angusto da sotto una coperta poggiata per terra iniziare ad uscire del sangue, prima un rivolo poi più copioso. Fine.
Insignificante.

Miyubi di Felix Lajeunesse e Paul Raphael

img_20170829_195931Non è un inedito ma uno dei progetti scelti tra il meglio prodotto quest’anno, è un mediometraggio di 40 minuti, quindi molto lungo. Tutto è visto dal punto di vista di un robot (noi che guardiamo) regalato a Natale da un padre ad un figlio nel 1982. Uno dei primi prototipi di robottini giocattolo, Miyubi è acceso in varie situazioni. Prima ovviamente a Natale, quando è scartato, poi in camera del ragazzo, poi a scuola, poi in camera del fratello ecc. ecc. fino a che non inizia a malfunzionare e verrà sostituito. Intanto però assisteremo di scena in scena ai problemi del nucleo familiare.
Qui la VR è un trucco per far entrare il pubblico dentro la famiglia, è usata come telecamera nascosta (anche se come sempre possiamo guardare dove vogliamo), non c’è nessun vero valore aggiunto. La scena si svolge quasi sempre in un punto solo, guardare altrove non ha senso. In più è anche recitato abbastanza male. Solo la ricostruzione d’epoca è fatta bene, tutti gli ambienti sono (necessariamente) in tono e la casa sembra quella di Laura Palmer. Per questo forse la cosa migliore è il sospetto che ci sia del pauroso, del marcio dietro alle porte. Ma ovviamente non succede mai niente, è solo un paranoia da spettatore.
Strano che sia tra i migliori dell’anno.

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

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