Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 1: I fondamentali

Essere Gabriele Muccino. Oggi. In Italia. Parte 1: I fondamentali
Parte 1 I fondamentali
©Andrea Francesco Berni
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  • Drop out del centro sperimentale

    “Me ne sono andato dopo un anno. Si sentivano tutti Visconti là dentro e si faceva troppo poco. Io volevo fare”

  • Operaio da 50 cortometraggi per Ultimo minuto

    “I montatori RAI erano gente in grado di levare la grazia a qualsiasi cosa”

  • Primo showrunner di Un posto al sole

    “Quando arrivai al centro RAI di Napoli non ci lavorava nessuno da anni, stava chiudendo. Gli operatori sapevano inquadrare la gente solo come nei Tg, al centro del frame”

  • Regista cinematografico

    “Avevo il terrore che il mio fosse un altro di quegli orrendi esordi italiani che vedevo a Venezia”.

  • Golden boy del cinema italiano con L’ultimo bacio

    “Fu uno tsunami a cui non ero pronto”

  • Chiamato ad Hollywood da Weinstein

    “Nonostante quel che è stato, era un cinefilo incredibile”

  • L’amore con Will Smith

    “Per me trasformò la Columbia nella Fandango”

  • Triturato dal sistema americano e da Gerard Butler

    “Mi hanno succhiato l’anima”

  • Poi di nuovo in Italia a fare film per pagare divorzi

    “Un bagno di sangue, ricevevo chiamate alle 4 del mattino”

  • E finalmente il ritorno al successo e la serialità

    “Già lo so che finirò a dirigere tutte le puntate ma non voglio”

©Andrea Francesco Berni

L’intervista che segue è frutto di un incontro di due ore che Gabriele Muccino ha voluto concederci e che abbiamo diviso in 3 parti. L’incontro è avvenuto al di fuori della promozione di un film, cosa che ha consentito una conversazione più ampia del solito.
Film per film.

intervista a cura di Gabriele Niola

Quando negli anni ‘90 Gabriele Muccino è piombato sul cinema italiano qualcuno come lui mancava da anni: popolare nella capacità di intercettare temi e storie di largo appeal, tecnico come nessun suo contemporaneo, americano nelle aspirazioni e nel ritmo, italianissimo nelle ispirazioni e nelle storie, voglioso di fare un cinema vorticoso e d’azione anche quando parla di sentimenti.

La carriera di Gabriele Muccino è un film di Gabriele Muccino, uno in cui la storia personale incrocia alcuni dei principali eventi della storia del cinema recente: da Weinstein allo scandalo delle mail hackerate alla Sony, dall’emergere del Sundance come realtà internazionale ai mutamenti del cinema italiano, dalla televisione degli anni ‘90 fino a quella rinata di adesso.

Ovunque mi sia documentato ho trovato che i corti di Ultimo minuto sono il tuo primo lavoro da professionista. È vero?

“No, il mio primo lavoro me lo commissionò Minoli. Vide un corto che aveva fatto con mio fratello e mia nonna, intitolato Nina. Mio cugino forniva gli appalti per Mixer e così riuscii a raggiungerlo. Impazzì. Mi chiese di fare 3 corti sui sentimenti, proprio tematici: innamoramento, gelosia, separazione”.

Praticamente Minoli ha impostato gli argomenti che avrebbero segnato tutta la tua carriera?

"AHHAAHHAHAHAHA Ha detto questo nella vita farà queste tre cose. Punto! Furono quei corti a portarmi a Ultimo minuto, credo nel ’90 o ’91 o addirittura ’93 [la trasmissione parte nel 1993 ndr]".

Ma tuo padre non era un dirigente Rai?

“Sì ma quello era un problema, all’epoca in RAI era motivo di fastidio prendere tuo figlio a fare qualcosa. Fu Balassone, il vice di Guglielmi a vedere i corti di Minoli e farmi lavorare. La frase fu: “Coltiviamo il nostro giardino!”. Io pensai: “Sarò rosa, sarò quel che ve pare, fateme lavorà”. E iniziai a fare questi corti che erano ricostruzioni docu fiction di incidenti veri, accaduti nella cronaca locale italiana, gente che si era salvata all’ultimo momento. Mi ritrovai a lavorare con moltissimi non attori tipo il vero pompiere che faceva se stesso. Spesso questi faticavano a rimettere in scena il loro trauma e in quei casi erano sostituiti da attori presi a caso. Il problema però erano le troupe RAI che erano molto molto RAI. RAI fino in fondo. I montatori erano così pericolosi che fu lì che mi inventai un mio stile fatto di piani sequenza. Cioè quel mio modo di far cinema non nasce da idee di cinefilia ma dal dover portare in moviola e in montaggio qualcosa che non potesse essere rimaneggiato o rovinato. Tutto quello che io pensavo avesse della grazia loro riuscivano a mortificarlo, levavano ogni mio punto di vista tagliuzzando con crudeltà e senza conoscenza filmica. Coi piani sequenza invece non potevano fare altro che incollare tutto insieme. Era un linguaggio stilistico che mai avrei pensato di avere, i miei primi corti erano più classici, pensavo solo a dirigere gli attori, che era una mia ossessione”.

Pensavi di essere più bravo della media?

“Di sicuro ero più pragmatico della media, sapevo di non poter pretendere che fosse dovuto leggere un copione anche di 20 pagine, perché comunque è una rottura di coglioni. Avevo capito subito che così non poteva funzionare. In più volevo confermare a me stesso che la mia ambizione di fare cinema non era identica a quella di altri sognatori che erano invece mediocri e non si rendevano conto di esserlo. Perché il mediocre e il genio pensano entrambi di essere geni, hanno gli stessi sogni, e allora come puoi capire chi sei tu? Poi quelli erano anni terribili, ero circondato da cinema mediocre, basso e demoralizzante rispetto al cinema che si era fatto e non si faceva più. Molti dei migliori erano morti, io ad esempio non ho mai conosciuto Gassman, Mastroianni e Fellini, ho solo sfiorato Monicelli, Scola e Suso Cecchi D’Amico”.

Hai visto Notti magiche di Virzì? Perché racconta quanto quella generazione lì dei Monicelli e Scola tappasse e non facesse emergere i più giovani, ma li mettessero a fare il negro [termine che nel gergo cinematografico italiano classico identifica il ghost writer ndr] e non il loro film. Ti ritrovi?

“Non ho capito quel film. Letteralmente. Proprio non lo so di che parla, non è una realtà che ho conosciuto”.

Ma non sei uscito dal Centro Sperimentale?

“Si lo feci ma me ne andai dopo un anno perché non imparavo abbastanza, ero affamato di mestiere e temevo di essere uno come quelli che esordivano (ed erano tanti) con film modesti che vedevo puntualmente a Venezia, dove andavo in campeggio ogni anno. Quando ero al centro una delle cose che mi irritò di più era la saccenza, l’arroganza e la supponenza dei miei compagni di corso di cui si è persa traccia, eppure all’epoca erano tutti dei Visconti. Io pensavo sempre che il cinema non fossero parole ma immagini, che sono un’altra cosa, che poi è il discorso che aveva iniziato De Sica e aveva concluso Leone: le immagini. Il cinema per me era altrove, quello anglosassone o neozelandaese, insomma stava ovunque tranne che nel concorso di Venezia”.

Beh in Ecco Fatto, il tuo primo lungo, già mettevi quello che hai dichiarato essere il momento di svolta della tua vita da spettatore: la corsa sotto la pioggia di Tom Cruise in Nato il 4 Luglio...

“Se ti vedi Nato il 4 Luglio capisci proprio tutto il mio cinema. C’è la corsa ma anche altre cose! Le corse sotto la pioggia mi piacciono devo dire e quella di Tom Cruise è così impulsiva e impetuosa che rappresentava il mio impeto nell’andare a bussare alle porte e nel fare corti per confermare a me stesso che fossi in grado di fare un lungo diverso da quelli che vedevo a Venezia”

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Infatti Ecco Fatto è la cosa più lontana immaginabile dai tipici corti o esordi di chi esce dal Centro Sperimentale, come riuscisti a fartelo produrre?

“Come ti ho detto sapevo che la gente non legge i copioni di 100 pagine, ma io volevo farmelo produrre, così avevo girato un corto chiamato Io e Giulia con Stefania Rocca e Gabriele Corsi che era Ecco fatto in 7 minuti. Vedendolo era chiaro come l’avrei girato e di che avrebbe parlato. E 7 minuti li fai vedere a tutti, se mi arriva uno simpatico con un DVD di un corto di 7 minuti ha molte possibilità che lo veda, tanto dopo 3 inquadrature capisci subito se è una cosa che ha senso. Così lo proposi a Domenico Procacci che lo mise subito in cantiere in un panorama di registi che non sapevano mettere insieme due inquadrature”.

La cosa assurda è che nonostante fosse un esordio era già tecnicamente solidissimo e pieno di idee visive come i giochi sui colori molto saturi...

“Figurati che era in 16mm… I miei punti di riferimento come detto erano Oliver Stone ma soprattutto il suo direttore della fotografia, Robert Richardson, con quelle luci sparate dal soffitto che sbiancano e bruciano il fotogramma. Mi riconosco molto nell’horror vacui di Stone, l’idea di riempire il fotogramma di tanta roba. Ecco fatto nasceva anche da quella voglia di fare un cinema che fosse da combattimento anche se non ero ancora pronto a farlo, non ero strutturato. Certo era una voglia anche un po’ superficiale, un cinema più che altro estetico. Penso di aver capito davvero cosa fosse il cinema quando vidi le sale vuote di Ecco fatto e realizzai che il cinema non è quello che fai ma quello che viene visto e un film che non viene visto è un film che non è esistito”.

Chi lo distribuì?

“La Mikado, figurati… Fu una distribuzione fatta con le monetine: 7 sale in tutta Italia. Ma in una, il Quattro Fontane di Roma, rimase in cartellone due mesi e mezzo. Partì con 4 spettatori al primo spettacolo e arrivò una sera nella sala grande tutta piena. Mi insegnò cos’è il passaparola. Tutto il suo incasso il film l’ha fatto lì tra settembre e dicembre, 100 milioni di lire mi pare, che non era nemmeno poco”.

All’epoca avevi 30 anni e raccontavi il liceo e poi con Come te nessuno mai, è come se avessi rifatto quel film con più mezzi e consapevolezza.

Ecco fatto serviva dimostrare a me stesso che sapevo raccontare. Come te nessuno mai invece partiva dai racconti dei pischelli 15enni amici di mio fratello, lui compreso, che erano incantevoli per la semplicità e il contenuto basilare: quando si scoperà, come sarà la prima volta, l’occupazione come atto di ribellione emulata e simulata, anche risibile e trasformata in parodia di quelle che erano le occupazioni dei fratelli maggiori di cui si era sentita l’eco e nessuno aveva mai fatto parte. Io stesso per un pelo sono riuscito a capire quel movimento ideologico che uccise le arti in Italia ma che comunque vissi nella mia stagione liceale”.

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Immagino poi che venendo da ore e ore di lavoro per la tv e da una serie di documentari girati in Africa (sempre commissionati da Minoli) tu fossi anche uno che sapeva rispettare i budget e consegnare in tempo no?

“Quello me l’aveva insegnato Un posto al sole”.

Come ci finisti?

“Mi ci mandò sempre Minoli come emissario: dovevo tirar fuori qualcosa da quel centro RAI di Napoli in cui la gente non lavorava da anni. Stavano proprio chiudendo, gli operatori non sapevano nemmeno come inquadrare, riprendevano il fotogramma come se fosse un telegiornale, mettendo il soggetto al centro e non nella porzione di fotogramma verso cui si rivolge. Gli insegnai letteralmente ad equilibrare le inquadrature. Fu un’altra esperienza assurda e frustrante, puoi immaginare il caos e l’impreparazione logistica ad una macchina complessa come quella della soap. Dovevo insegnare a tutti a fare tutto, però quell’esperienza insegnò a me a risolvere un problema in 30 secondi. I tempi erano una giornata per una puntata e 20 minuti per una scena dal momento in cui entri sul set. Era necessaria una tale capacità di non incartarti con le macchine (avevamo 3 telecamere) e con gli attori, che erano molto restii a farsi dirigere, da riuscire a farlo al volo. Quella velocità di pensiero maturata in Un posto al sole mi ha dato una velocità industriale ancora prima di Ecco fatto”.

Stefano Sollima, che pure è passato tramite quell’esperienza dice la stessa cosa. Che quando sei abituato a consegnare una puntata in un giorno non c’è più nessun problema che ti possa spaventare

Un posto al sole è il servizio militare del cinema, devi risolvere problemi, tutto è brutto ma deve essere fatto, devi consegnare e questo concetto di consegnare in certi minuti altrimenti sfora la macchina ti crea un senso di responsabilità enorme, infatti io nei miei film non sforo mai, al massimo 1-2 giorni. Ancora più importante da quel momento io non sono mai più arrivato senza un breakdown delle inquadrature di ogni scena. A tavolino, quando sono sereno durante la preparazione, faccio un lavoro doppio sulla sceneggiatura: mi scrivo tutto l’elenco inquadrature per capire di quanti tagli la scena ha bisogno, se ne servono tanti o occorre un piano sequenza, qual è il fuoco della scena intorno a cui la macchina si deve concentrare, se serve la steady o il carrello o la macchina a mano per rendere la nevrosi degli attori o ancora un teleobiettivo per schiacciare tutto oppure un grandangolo per allontanarle e rendere rarefatte, come faceva Kubrick con le sue ottiche larghe e spesso con lunghissimi carrelli. Tutto ciò lo decido prima di fare un film, sul set devo solo mettere in bella copia quel che ho pensato e capito facendo questo esercizio faticosissimo. Mi prende quasi lo stesso tempo che mi richiede scrivere il copione. Però alla fine il breakdown è così preciso che sul set non devo pensare, leggo quel che ho scritto e mi fido delle decisioni che ho preso quando non avevo la pressione del set. Lì ci sono troppe domande, troppa ansia, troppa confusione, solo a casa col copione sei lucido. Così quando leggo “carrello veloce a stringere sul primo piano” anche se mi pare una cazzata lì per lì, perché penso “Che c’entra un carrello veloce all’improvviso?”, mi fido e lo faccio. Poi effettivamente c’è magari una sequenza di tre carrelli veloci VAM, VAM e VAM che creano una musica cinematica che non avrei mai potuto costruire sul set senza averla elaborata con freddezza a tavolino”.

Leggi la Parte 2: il successo italiano e mondiale
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