L’ho scritto in pochissimo tempo” cioè 48 ore, spiega Paolo Sorrentino seduto su una sedia sul prato interno dell’hotel Excelsior di Venezia, sigaro spento in mano, davanti a una decina di giornalisti “ma non è che sia un virtuosismo, è che ci avevo pensato tanto e quindi scriverlo è stato semplice”.

È stata la mano di Dio è stato appena presentato alla stampa del festival, tra poco ci sarà la premiere a inviti e poi partirà per Telluride (seconda tappa) mentre più in là a settembre già sa che sarà a San Sebastian (“un festival che non mi ha mai voluto prima ma questo film mi sta aprendo porte che prima erano chiuse”). In più alcuni dicono anche che sa pure di dover tornare qui dopo Telluride perché un premio sembra scontato.

Il film è andato bene. Non c’è l’aria di quegli incontri stampa dopo le proiezioni fischiate, in cui la sensazione è che la prima parola fuori posto farà partire la tirata e il risentimento. Sorrentino è rilassatissimo. A un certo punto mentre parla da una finestra dell’hotel sopra di noi qualcuno grida “Paolo sei grandissimo!!!”. Ride e dice: “Gli ho detto ‘Esci tra un po’ e dillo, che ci sono i giornalisti’”.

Del film sappiamo che l’idea esisteva da tempo ma il momento non era mai giusto fino ad ora almeno, eppure si trovano parti che già ha trattato, come ad esempio una che è presa pari pari da Hanno tutti ragione, il suo libro. Sono parti di finzione o si sperimentavano pezzi di autobiografia?

“Non mi importa stare a dire cosa è vero e cosa è falso nel film. Ma sì, è vero, ci sono molte cose che stavano già in altri film o nel libro, solo che qui sono senza filtri. In tanti film o serie ho messo parti della mia vita, in fondo anche in The Young Pope Jude Law fa il gioco con le arance con cui mia madre risolveva i momenti tragici (ed era anche orfano)”.

Adesso che è tutto in un film, chiaro e apertamente autobiografico, è liberatorio?

“Eh non lo so. Bisogna prima superare lo scoglio più difficile, farlo vedere ad un pubblico con me presente, cioè la prima di stasera. Allora saprò dire se è liberatorio averlo fatto o no”.

sorrentino set mano di dio

Nel film si dice che il cinema non serve a niente ma ti distrae. Ci credi?

“Sì ma non solo il cinema non serve a niente, nulla serve a nulla tranne il vaccino. È una bella distrazione come anche il calcio, infatti quando vedo le partite non mi sento in colpa per non aver visto un film, sono entrambe forme di distrazione sublimi e artistiche”.

Il film rinuncia a molti dei tuoi stilemi…

“Anche io, che sono un ottuso, ho intuito che parlare del lutto e mettersi a fare dei dolly forse non era compatibile. L’idea era che il film non dovesse avere trucchi, cosa a cui invece ricorrevo molto nei film precedenti. Non ci potevano essere movimenti macchina grossi, io ho un’immagine della mia adolescenza ferma”.

Ma non è vero. In realtà il film si apre con una delle soluzioni più audaci del tuo cinema, un piano sequenza aereo abbastanza complicato dalla veduta della città al dettaglio di una macchina singola sul lungomare.

“La prima parte è piena di trucchi, c’è anche un lampadario acceso posato sul pavimento, è un po’ un sogno, è come ho sempre fatto i miei film. Mi sono concesso questo inizio per congedarmene poi. Quando il sogno finisce e arriviamo alla forma realistica non ce ne sono più”.

Uno degli stilemi cui rinunci è l’uso delle musiche non originali, anche se poi il tuo alter ego ha sempre il walkman.

“Lui ascolta la musica ma è come se non la sentisse perché attraversa una fase della vita fatta dei dolori legati all’essere adolescenti, più quelli che si aggiungono per gli eventi che vive. La ascolta ma è come se non ascoltasse, quando intravede un’idea di futuro è pronto per ascoltare davvero la musica”.

Si intuisce che non hai voluto fare una grande ricostruzione degli anni ‘80 vero?

“Alle volte i film si perdono nell’eccessiva cura del dettaglio d’epoca, io invece non volevo troppi pullover rosa o zainetti Invicta. Gli anni dovevano essere quelli ma potevano sembrare un periodo qualsiasi, non è importante il cliché degli anni ’80 ma gioie e dolori dei personaggi che incidentalmente capitano negli anni ‘80. Se qualcosa c’è degli anni ‘80 è il modo di divertirsi e stare insieme ingenuo e improntato a prendere in giro, ridere e fare scherzi, forme antiche di trascorrere il tempo senza telefonini e computer. E poi i rumori, non so perché ma io li ricordo tutti e so distinguere tutti i motorini anni ’80. Sono stato quindi molto attento al rumore giusto del Sì o del Ciao o ancora della Vespa50. Sarà perché idolatravamo i motorini, era un’ossessione…”

servillo mano di dioCome mai l’hai fatto con Netflix?

“Ci ho parlato quando ero in America, prima della pandemia quindi, mi pare il luogo giusto per un film piccolo fatto bene con mezzi e promozione di un film grande. Sono rimasto stupito da come hanno trattato e lanciato Roma di Cuaron. Ho chiesto se potevo avere esattamente lo stesso trattamento e me l’hanno garantito. Che non è da tutti”.

Pensi di aver detto qualcosa su Napoli?

“Non sono bravo a dire cosa sia Napoli, l’hanno detto tutti, e hanno detto tutto e il suo contrario. È una città promiscua dove l’alto tocca il basso, lo è sempre stata, già in passato si andava a Napoli proprio perché promiscua e quindi divertente. Per me Napoli in quegli anni era un safari a piedi, senza jeep, senza poter scappare quando arrivano leoni e tigri e come nei safari trovi tutti, il leone, gli uccelli meravigliosi, animali più innocui, la bellezza del sacro, l’erotismo del profano, tutte cose combinate insieme che come in una giungla si tengono insieme con leggi naturali, misteriose e spesso incomprensibili”.

Antonio Capuano è uno dei personaggi del film. L’ha visto?

Capuano l’ho sentito e non sa se lo vedrà sul piccolo schermo perché vuole vederlo sul grande, ma il file gliel’ho mandato. Ce l’ha sul computer, quindi se ha voglia….”

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

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