Gianfranco Rosi è tornato alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare il suo nuovo progetto e con Notturno (qui potete leggere la nostra recensione) trasporta gli spettatori nel Medio Oriente, in una realtà ai confini di cui non vengono mai dati dettagli e indicazioni precise, lasciando alla forza delle immagini e delle storie il compito di raccontare e suscitare domande e riflessioni.

Uno degli elementi chiave del progetto è proprio la condivisione di emozioni ed esperienze personali drammatiche e significative, tra cui quelle vissute da bambini che parlando delle violenze subite e a cui hanno assistito. Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne proprio con Gianfranco Rosi:

Come è riuscito a stabilire questo legame con le persone ritratte nel suo film?

Si è trattato sempre un incontro casuale e poi diventato necessario nel corso del tempo. Ho passato sei – otto mesi compiendo ricerche, cercando prima dei territori, dei luoghi e degli assoluti e poi all’interno di questi posti trovare ddei personaggi che potevano essere protagonisti. C’è quindi stata una grande ricerca, ma si è trattato di elementi sempre nati dall’immediatezza, non ho mai avuto dubbi, una volta creata questa struttura narrativa di incontri, dopo otto mesi circa, ho iniziato a girare e portare poi avanti questa storia nel corso di due anni, quindi dovendo seguirli, lasciarli, ritornare, rincontrare. Pochissime storie si sono risolte in pochi momenti o pochi giorni, altre sono state portate avanti nel corso di mesi e anni. è stato fondamentale per me creare un rapporto di intimità e fiducia reciproca, solamente seguendo le storie si poteva capire come e cosa filmare.

Durante il montaggio ha dovuto sacrificare qualche storia?

Nei miei film sono sempre riuscito a portare fino alla fine le storie che ho iniziato, è un’azione collettiva, di tutti, non ho mai lasciato fuori dal film delle storie, dei personaggi, delle scene sì, ma non ho mai sacrificato nulla.

Le difficoltà sul set, anche dal punto di vista tecnico, devono essere state moltissime…

La logistica, gli spostamenti, la sicurezza, le scorte, i permessi… sono sempre state delle cose drammatiche; ottenere i permessi per filmare è stato davvero complicato, come quelli per entrare in manicomio, in alcune zone, per tirare fuori la cinepresa, per sapere se potevo filmare, per mettere a conoscenza delle persone la tua presenza, per sapere quanto tempo avere a disposizione. Più passi tempo nei posti più diventi un target ed è stata la cosa più difficile perché io ho bisogno di trascorrere molto tempo sui luoghi e si diventa vulnerabili in quella situazione.

Ha accennato alla scena della rappresentazione teatrale, come ha scoperto quella realtà e quelle attività?

Il manicomio è quasi un’istituzione a Baghdad, durante la guerra è diventato un rifugio, finito il conflitto è stato trasformato in una prigione degli americani ed è stato molto usato, è rimasto un istituto psichiatrico, è un luogo quasi storico, è stato anche bombardato dall’ISIS e poi è stato ricostruito. Per mesi e mesi ho cercato di raccontare la storia del manicomio e non è stato facile, fino a quando ho trovato questo spazio teatrale, questa rappresentazione. Ho chiesto cosa rappresentavano e mi è stato risposto ‘Our land’, la storia del nostro paese, del Medio Oriente. Mi sono fatto tradurre il testo ed era esattamente quello che cercavo, il fil rouge del film, quindi seguendo questa performance teatrale ho capito di come affrontare la narrativa del progetto, le domande che nascono dalla pièce teatrali sono quelle che ognuno si fa e le contraddizioni esistenti, è la storia consegnata ai folli, la nave dei folli di Foucault, saggezza nella follia.

Equilibrare nel montaggio le tante storie deve essere stato molto complicato, che approccio ha scelto nella creazione?

Il film rompe qualsiasi geografia, psicogeografia, trovare un equilibrio e una sintesi tra le storie è stata la prova più difficile. Dovevo capire quando abbandonare una storia, quando entrare in una storia, quando legare due storie perché sono state girate nei posti più disparati e dover annullare questi confini, questo territorio, l’unica narrazione che avevo era la storia dei personaggi. Il tempo del film è il tempo della storia dei personaggi e le domande e le risposte arrivano da questo elemento, il confine diventa il margine della storia non il film, il confine diventa un confine mentale e la geografia diventa uno spazio mentale.

Il finale è un momento particolarmente intenso e in grado di lasciare lo spettatore con un messaggio molto forte, quasi di speranza. Ha sempre pensato a quelle scene come epilogo di Notturno?

La scena usata è sempre stata pensata per il finale, ma mi sono sempre chiesto se fosse giusto consegnare sulle spalle di un bambino di tredici anni il peso del film, però quello sguardo è talmente ampio, talmente intimo… Io credo che tutte le nostre domande e risposte che ci siamo portati dietro durante il film siano contenute in quei 30 secondi, quel minuto, sul volto di Ali, in questa immagine di futuro sospeso, come quello che stiamo vivendo noi in tutto il mondo. C’è quindi questa fortissima simbiosi tra questi due mondi, quello che viviamo noi e quello che ho girato, con la sola differenza che le persone che ho filmato si portano avanti questo futuro in sospeso da anni e anni, un dramma tremendo, diventano anche le vittime della storia, emerge il tradimento proprio della storia.

Un altro momento indimenticabile è quello della madre che piange la morte del figlio…

Il dolore della madre è il dolore universale perché rappresenta proprio l’universalità, gli archetipi, è uno stato d’animo e lo è davvero in modo universale: è il dolore di una madre che perde un figlio a prescindere dalla storia e dal legame geografico.

La protagonista di quella scena non ha mai avuto timori o dubbi nel mostrare questo attimo in cui appare così vulnerabile?

La madre entra in quel luogo dopo 40 anni, dove è stata anche lei incarcerata e quel giorno c’era una celebrazione in quella struttura in cui sono state sterminate migliaia e migliaia di curdi durante il regime di Saddam Hussein. Hanno acconsentito che io le filmassi dentro questo carcere e sono quasi dei personaggi vicini alla tragedia greca. Questo pianto, questo attimo in cui la madre scopre la cella del figlio si ricorda che fu assassinato lì e vede attraverso i muri la presenza del figlio si è trattato di un momento quasi catartico per lei e per me che stavo filmando. Io non capivo cosa stesse succedendo, ma ho tenuto aperta la cinepresa e quando hanno tradotto le sue parole ho capito la forza di quella scena.

I suoi progetti richiedono anche molti anni e mesi di preparazione, sta già pensando al prossimo film?

No, non ho le energie per affrontare un nuovo progetto attualmente. Ogni volta dico ‘Questo è il mio ultimo film’, poi succede qualcosa e cambio idea, c’è un grosso sacrificio perché abbandoni la tua continuità, la tua vita, ti sacrifichi per immergerti in un altro mondo che diventa il tuo, è un’esperienza che ti cambia profondamente.

Qui al Festival di Venezia si parla già di potenziali premi, come vive questa possibilità?

Io non penso mai a potenziali premi. Ci sono così tanti fattori quando si va a un festival che non si pensa mai ai premi. Non si devono aspettare e quando uno li ha vinti li si deve dimenticare perché altrimenti diventano ingombranti. Non c’è un’aspettativa anche se è un concorso, quindi ovviamente ci si pensa ma è un pensiero che scacci e tieni lontano. Poi non siamo Bolt che se fa 100 metri in nove secondi diventa il migliore in assoluto, se arriva un riconoscimento è sempre splendido, ma se non arrivasse si va avanti.

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