Per l’uscita di A Classic Horror Story, il film di Netflix presentato al festival di Taormina, abbiamo sentito i registi e realizzato due interviste, una molto centrata sul film e piena di spoiler che non vorreste sapere prima di guardarlo, e questa che invece è meno concentrata sul film, non ha spoiler ed è centrata sull’esperienza dei due registi, Roberto De Feo e Paolo Strippoli che da anni fanno horror (tramite corti e lunghi) in Italia. Abbiamo parlato dei possibili problemi produttivi, di cosa sia complicato ottenere e cosa invece stia cambiando.

In Italia infatti ad oggi si girano due tipi di film horror: quelli in inglese che potrebbero essere ambientati ovunque e che vengono più che altro esportati (alle volte anche bene) mentre da noi sono ignorati, e quelli invece più identitari e in italiano che tuttavia non hanno grande varietà e puntano quasi sempre sul folklore, spesso meridionale. A Classic Horror Story riesce a distinguersi.

È possibile secondo voi un horror italiano urbano che non affondi le radici nel passato ancestrale?

PAOLO STRIPPOLI: “Sarò sincero: non lo so”.

Questo vostro film, che proprio su quello si basa, avrebbe funzionato se ambientato in città, quindi senza il folklore?

PS: “Assolutamente no. Ma attenzione a me non dispiace l’idea di film che raccontino il nostro folklore e spero di vederne sempre di più, credo sia una materia poco sfruttata e che non si trova solo al sud. Fino ad oggi pochi (noi inclusi, eh) l’hanno davvero sfruttata. Ora che finalmente il cinema di genere si è ibridato con quello d’autore mi pare l’occasione perfetta per raccontare in maniera più precisa e profonda miti e leggende del nostro paese”.

Pensate che farsi produrre horror senza elementi folkloristici, come Insidious o Sinister, sarebbe più difficile?

ROBERTO DE FEO: “Io ho cercato di sviluppare storie horror di questo tipo ma noto ancora una certa diffidenza da parte dei produttori. Ti chiedono storie glocal, cioè molto locali e quindi di appeal globale, vicine al folklore. Me l’hanno chiesto per altri progetti e me lo chiedono anche ora per cose che sto sviluppando. C’è molta paura a staccarsene perché le storie urbane e non folkloristiche possono costare di più e le produzioni faticano a rischiare sul fatto che un regista italiano possa realizzare un Insidious. Per questo non insisto. Cioè, in passato ho rinunciato a fare progetti simili perché non vedevo coraggio e voglia di spendere. Tanto vale non farli se non hai i budget corretti”.

Ma l’horror non è l’unico genere il cui pubblico non ha problemi ad accettare produzioni a budget bassissimo?

RDF: “Dipende se hai l’idea. Paranormal Activity è nato intorno ad un’idea di budget basso e, con scale diverse, anche A Quiet Place. Il primo ha una struttura narrativa furba, girato quasi in una location sola, con effetti pazzeschi ma solo in 4 scene e tutto il resto sono attori che nemmeno parlano. È fatto per costare poco (per un grande studio). Bisogna però averla questa idea. Mi piacerebbe fare un film in inglese con idee simili”.

Come si cambia questo imbuto produttivo per il quale c’è paura a rischiare budget maggiori per storie non folkloristiche?

RDF: “Con qualcuno che ha fortuna o il merito di trovare un budget più importante e dimostrare che un progetto diverso può avere successo”.

A Classic Horror Story fa una grande attenzione a somigliare visivamente a tutti gli horror più recenti. Midsommar in testa. È un tentativo di dimostrare che si può fare qualcosa di diverso?

RDF: “No, il contrario. Sono cambiamenti fatti all’ultimo. Considera che la prima stesura di questo film la scrissi 6 anni e mezzo fa, ed era diverso, si prendeva più sul serio. Tuttavia un film come quello che avevo scritto, dritto e serio, in Italia ancora nessuno può permettersi di farlo”.

PS: “Considera che la prima stesura approvata da Netflix tre anni fa era in inglese e ambientata in Polonia. Poi con Lucio Besana, Milo Tissone e poi con Roberto abbiamo lavorato per portarla in una direzione che ci interessava di più, verso la satira in un certo senso. Ad ogni modo le citazioni di Midsommar poi vengono dal nostro amore incondizionato per Ari Aster, uno dei più grandi autori che oggi lavorano nel cinema”.

Come considerate i film italiani dell’orrore come Shortcut, quelli girati in inglese per un mercato straniero che cercano di non sembrare italiani e presentarsi come internazionali, senza paese. È una strada vincente secondo voi?

RDF: “Non lo so. Shortcut è stato distribuito da Eagle Pictures direttamente in DVD dopo che invece in America è andato in sala anche abbastanza bene. Che è il colmo! Tra l’altro il regista, Alessio Liguori, l’ha girato con una casa di produzione giovane e un produttore giovane che gli ha fatto fare quel che voleva con un piccolo budget. È un impianto diverso dal solito. Lo possono fare pochi fortunati come Paolo, che ha girato ora Piove con un budget che è stato chiuso senza bisogno di avere già un distributore a dire la sua”.

PS: “Guarda, io stimo tantissimo Liguori, lo trovo un esempio da seguire. Tuttavia a me non mi interessa fare un film come Shortcut, se un giorno mi faranno girare un film in America ok, allora mi confronterò con quel mercato. Ma se parto da qui e devo fare un film in inglese per un mercato internazionale sacrificando l’identità e l’originalità che può avere un horror molto italiano allora non mi interessa. Voglio provare a fare qualcosa di nuovo. Poi Shortcut non l’ho visto e quindi non posso esprimere un giudizio, sono felicissimo che il film abbia avuto successo in America, ma io non voglio essere sempre quello che fa le cose come gli americani senza essere americano. Temo di essere la loro serie B”.

Roberto tu vorresti fare un film internazionale, in inglese, con un buon budget. Paolo te invece vuoi lavorare sul folklore italiano. Chi sbaglia dei due?

RDF: “Ma no, nessuno. Io lo capisco Paolo che vuole fare cose originali, senza imitare gli stranieri, come posso non essere d’accordo anche con questo? Lo so che è difficile trovare una storia non folkloristica che non sia la versione di serie B di qualcos’altro già fatto in America o altrove. Però lo stesso mi piacerebbe”.

a classic horror story

Le storie che state immaginando di fare ora girano ancora intorno al folklore e se no, intorno a cosa girano?

RDF: “Io ne sto sviluppando un paio, una è il tipo di horror in stile Hereditary, quindi non folkloristico, l’altra invece affonda nei miti italiani tradizionali”.

PS: “Io ho in uscita tra poco Piove che è un horror mescolato al family drama, un po’ come il film di Roberto The Nest. Però ho una sceneggiatura nel cassetto, una con cui vincemmo il Premio Solinas un paio di anni fa, che è una storia di folklore, un horror anche quello molto intimo”.

Il vostro horror italiano preferito degli ultimi 20 anni?

RDF “Shadow di Federico Zampaglione. Purtroppo penso non sia riuscito appieno a portare a un ritorno del genere o, come sembrava più probabile, alla nascita di un nuovo punto di riferimento (parlo del regista) nel panorama horror italiano. Però è il mio preferito”.

PS: “Il Nascondiglio di Pupi Avati. È un haunted movie derivativo e inverosimile, ma pur nel suo classicismo e nel suo fascino old style mi ha terrificato più di qualsiasi altro horror italiano dello stesso periodo e per questo mi è rimasto nel cuore. Forse da fan sfegatato de “La casa con le finestre che ridono” un po’ sono di parte. Però una menzione a The Nest (mi perdonerà Roberto) la devo fare seriamente. Lo dico senza paraculaggine: è un film che tenta di ibridare family drama, coming of age e horror. Io ho un debole per le operazioni di questo tipo. Uno dei miei film preferiti di sempre è Lasciami Entrare… come posso non amare un film italiano che ha ambizioni simili?”

Vi ricordiamo che A Classic Horror Story uscirà su Netflix in tutto il mondo il 14 luglio.

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