Joe Russo è a Roma ma non per la Festa del cinema: è a Roma come produttore ospite al MIA, il mercato dell’audiovisivo che si svolge parallelamente alla festa. Lì ha parlato, ha incontrato e ha annunciato la società prescelta per la declinazione italiana del nuovo progetto della società dei due fratelli, la AGBO.

Citadel è una serie articolata in varie serie, un thriller che avrà una produzione madre, cioè una serie internazionale girata in lingua inglese, in cui si trova il troncone principale della trama, e poi avrà altre serie ad essa collegate che si svolgono in diversi paesi e sono prodotto localmente, nella lingua locale con attori e creatività locali.

Per l’Italia sarà Cattleya, società parte del gruppo ITV che a livello internazionale si è messa in luce con Gomorra – La serie e ZeroZeroZero, a crearla, scriverla e produrla

Perché Cattleya?

“Sono tra i migliori al mondo. Gomorra e ZeroZeroZero sono tra le mie serie preferite e poi il loro processo produttivo è molto simile a quello della nostra società, AGBO, è molto disciplinato, concentrato e gode di un controllo qualità efficientissimo”.

Che relazione ci sarà tra Cattleya e la produzione madre? Quanta autonomia è concessa?

“Loro lavorano con noi direttamente ma sta a loro creare la serie, usando le regole del nostro mondo e i personaggi del nostro mondo, come uno spin off”.

Solitamente le serie sono scritte da persone diverse e dirette da persone diverse in modo che non si senta l’eterogeneità dei contributi ma anzi che sembri tutto fatto da una persona sola, sarà così anche per le diverse serie di Citadel?

“No, anzi! Ogni serie sarà diversa sia a livello di genere, che di scrittura, che di approccio visivo. L’idea è che ognuna sia molto specifica del territorio in cui è stata prodotta. Le produzioni locali prenderanno tutte le decisioni e questa è la cosa più eccitante. Non è niente di quello che si è già visto. Tutti nuotiamo nella stessa piscina ma ognuno a modo proprio”

Mi rendo conto che con voi è un’espressione un po’ trita e abusata ma alla fine per Citadel avete replicato il concetto dell’universo cinematografico condiviso, in cui le serie possono non somigliarsi, come Thor: Ragnarok non somiglia a Captain America – Civil War, pur vivendo nello stesso universo?

“Esattamente. E mi piace tantissimo l’idea che nel fare questo possiamo anche valorizzare il talento locale. Noi diamo davvero il controllo ai partner perché li abbiamo scelti proprio per quello che sanno fare e perché conoscono il loro mercato nazionale meglio di tutti. Vorrei che potessero esprimersi come se noi non ci fossimo”.

E poi ovviamente lavorate al sequel di Tyler Rake per Netflix, cioè i competitor di Amazon. Una volta chi lavorava per la MGM mai avrebbe potuto lavorare anche con la Universal. È cambiato anche questo?

“Non è più così, noi siamo indipendenti, che credo sia la cosa più importante di tutte adesso”.

A differenza di molti altri registi di Hollywood tu e tuo fratello non siete degli strenui difensori della sala a tutti i costi giusto?

“Ci piace il cambiamento, pensiamo che le storie siano prevedibili specie il modello da due ore. Cioè sai già che una commedia ti farà ridere per due ore e finirà bene.
Ma quando Netflix mette 10 episodi di una serie online tutti insieme stai parlando proprio di un altro mondo del racconto. Uccidere un personaggio a metà film è diverso da ucciderlo a metà serie, perché ci hai passato 5 ore insieme, ci tieni molto di più. Ed è solo una delle molte opportunità narrative che offre la distribuzione digitale. Te lo dico, io mi sono davvero stancato della distribuzione nelle sale e della sua formula sempre uguale”.

Joe Russo mia

Quindi non hai troppe remore riguardo la potenziale morte della sala?

“Se la morte della sala porta a qualcosa come Squid Game, cioè al fatto che un artista coreano può creare la serie più guardata su quella piattaforma anche più di quelle americane, beh allora per me quel che abbiamo guadagnato non è male. In questi casi bisogna sempre considerare i pro e i contro, marginalizzare i contro e abbracciare i pro”.

A fare l’avvocato del diavolo posso dirti che Parasite è riuscito a fare lo stesso, a battere gli americani agli Oscar ed essere visto in tutto il mondo, con un modello tradizionale…

“Ma non è la stessa scala! Se scendi in strada ti sarà difficile trovare qualcuno che ha visto Parasite, invece non sarà difficile trovare qualcuno che abbia visto Squid Game”.

Nella diatriba partita con Scarlett Johansson sui compensi che vengono dallo sfruttamento digitale dei film immagino che tu stia dalla parte dei talent giusto?

“Al 100%. È un cambiamento epocale quello che stiamo vivendo, anche se ciclico, quando uscirono i DVD fu la stessa cosa. Sono sempre occasioni per le grandi corporation di grattare un po’ di profitti dagli artisti. Quella finestra di sfruttamento non era proprio prevista nel contratto di Scarlett Johansson, nessuno poteva prevedere la pandemia o pensare che quel film sarebbe stato distribuito in quella maniera. E quella maniera ha senz’altro danneggiato i guadagni dalle sale e quindi intaccato il compenso pattuito. Assicurarsi che il compenso per il lavoro che facciamo rimanga equo è fondamentale e sono quindi contento che quella questione si sia risolta. Certo sarebbe stato meglio se non fosse accaduto in pubblico. Però ha dato il via a discussioni più grandi”.

Che non mi pare siano finite. Ora le agenzie che rappresentano gli artisti stanno combattendo per creare dei nuovi contratti standard che prevedano quel tipo di compenso dalle uscite digitali e in sala. Forse ora la battaglia è anche più grossa e feroce…

“Dipende. Netflix ad esempio ha un modello di contratto equo e ben stabilito (anche se non tutti credono sia equo) e molti sono contenti di lavorarci. Certo però Netflix guadagna i suoi soldi diversamente da Disney, quindi quello che va bene per loro non può andare bene gli altri. Ogni compagnia deve capire come compensare i propri artisti in caso di distribuzione digitale. Sai, ci sono decenni di precedenti quanto a contratti e contrattazione se parliamo di distribuzione in sala mentre, a parte Netflix, nessun precedente per l’online. Ci saranno parecchie turbolenze ma secondo me in un paio d’anni si risolverà tutto”.

Due anni!?! Pensavo meno!

“È quello che ci vuole perché si scrivano e firmino un numero sufficiente di contratti per creare dei precedenti, delle case history che ci consentano di arrivare ad una forma standard stabilita che soddisfa tutti”.

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