Mentre la settantaquattresima edizione del Festival di Venezia volge ormai al termine, abbiamo avuto l’onore di incontrare il grande documentarista Frederick Wiseman, in lizza per il Leone d’Oro con il suo Ex Libris, dedicato alla New York Public Library. Un lavoro complesso e sentito, che porta con sé una riflessione sul ruolo della cultura nel mondo contemporaneo e un inevitabile messaggio politico. Ecco il resoconto della roundtable con il regista.

Ha filmato praticamente di tutto nei suoi documentari. Come sceglie il soggetto de suoi film?

Filmo tutto ciò che mi interessa. Ho una lista in testa, da cui attingo di tanto in tanto. A volte invece capita per puro caso, per esempio nel 1978 ero nello studio medico del mio dentista e ho notato, su una rivista, un articolo riguardante un’agenzia di modelli, e ho pensato fosse il momento giusto per fare un film su quell’argomento. E lo feci.

Quanto dura, in media, la fase di ricerca e di preparazione dei suoi film?

Di solito, è molto facile ottenere i permessi, e quindi – con una sola eccezione – abbiamo necessitato di un solo giorno di preparazione prima delle riprese vere e proprie. Considero le riprese stesse parte della ricerca, non mi piace essere sul posto e vedere qualcosa d’interessante senza avere la possibilità di filmarla. L’unica volta in cui abbiamo impiegato più tempo a preparare le riprese è stato per il film che ho fatto sulla Comédie Française [La Comédie-Française ou L’amour joué, ndr] e non è stato per un motivo di ricerca, ma perché necessitavo dell’approvazione di 23 diversi sindacati, quindi ho dovuto passare tre mesi passeggiando e bevendo birra con i rappresentanti sindacali aspettando di ottenere i permessi. Negli altri casi non è stato così: per la New York Public Library, ho trascorso un solo giorno lì prima delle riprese, passeggiando nell’edificio principale, e un pomeriggio facendo un tour delle altre sedi. Ho iniziato a girare due mesi dopo.

Ci sono location che non è riuscito a riprendere, nel corso della sua carriera?

Nel 1968, iniziai a girare un film sulla polizia a Los Angeles, e dopo una settimana di riprese mi è stato detto che avrei potuto fare tutto ciò che volevo, a eccezione del filmare all’interno delle volanti della polizia. Andai quindi a Kansas City, in Missouri, dove il capo della polizia mi diede il permesso di girare qualunque cosa volessi, quindi feci il film lì. È stata l’unica volta in cui mi è capitata una cosa del genere. Un’altra volta, volevo fare un film su una casa di produzione di Hollywood, mi erano stati dati i permessi, ma poi i responsabili cambiarono idea. Peccato, sarebbe stato un film molto divertente.

Il suo film riguarda la cultura ma anche la politica, in questo momento. Trump ha da poco tagliato i fondi alla cultura e, nello specifico, alle biblioteche. Come lo spiega?

Non avevo in programma di fare un film politico, girando un documentario su una biblioteca. Ma Trump l’ha reso un film politico, e questo è il motivo per cui lo supporto [ride]. No, la biblioteca è l’anti-Trump. Ciò che la biblioteca rappresenta è tutto ciò che lui non comprende o detesta. È aperta a tutti, si propone di aiutare le persone meno abbienti, crede nell’uso della conoscenza e nella diffusione della cultura. Trump è molto darwiniano, anche se non sa neppure bene chi sia Darwin. È incompetente, incolto, illetterato, e la biblioteca rappresenta tutto ciò che lui non è.

Pensa che Trump rappresenti lo specchio della futura generazione? I dati confermano un calo vertiginoso della quantità di libri letti dai giovani americani. 

È difficile pensare che l’avvento di internet non abbia influito. Lo vedo osservando i miei nipoti: leggono, sia chiaro, ma leggono molto meno di quanto facessi io alla loro età.

Prossimo progetto?

Non posso parlarne, ma sono attualmente al lavoro e mi sta impegnando moltissimo.

Lei è il maestro del cinema d’osservazione…

Non mi piace questa definizione specifica: io faccio film. Il concetto di cinema di osservazione suggerisce l’idea di qualcuno che si mette in un angolo, accende la macchina da presa e si mette a riprendere tutto ciò che succede, e non è vero nel mio caso. I miei film sono frutto di migliaia, anzi, centinaia di migliaia di scelte. Certo, è d’osservazione nel senso che non chiedo alle persone di fare qualcosa, non le dirigo, ma non lo è in un altro senso, perché cambio costantemente la mia posizione, e non so cosa mi capiterà di filmare.

Spesso, nel cinema contemporaneo, la lunga durata è vista come una caratteristica negativa per un film.

Beh, io faccio film nel modo che preferisco. Gli argomenti su cui sono incentrati i miei lavori sono complessi, e credo di avere l’obbligo, nei confronti delle persone che mi hanno concesso i permessi per girarli, di riflettere nell’opera finita tutta la complessità del soggetto in questione. Questo richiede tempo. Quelle riunioni presenti in Ex Libris, per esempio, durano 7 o 8 minuti nel film, ma in origine ne duravano 90. Il mio lavoro consiste nel riassumere e condensare quelle sequenze e le idee che sono in esse contenute in una forma comprensibile. Ci vuole tempo. Non sta a me dire se io sia riuscito in tale compressione, ma avevo l’obbligo di tentare, perché altrimenti avrei sminuito la complessità delle tematiche e dei personaggi, cosa che volevo evitare a ogni costo.

Possiamo considerare Ex Libris un lavoro “totale”?

No, non credo che il film presenti ogni aspetto della New York Public Library. Nessun film può rappresentare la totalità di un soggetto. Ho realizzato un documentario di sei ore sul reparto di terapia intensiva di un ospedale, e durava sei ore perché seguiva quattro persone che stavano morendo, ma di certo non mostrava ogni cosa. Sarebbe oltremodo presuntuoso, da parte mia, suggerire al pubblico di aver fatto un lavoro che comprende ogni aspetto della biblioteca. Rappresenta ciò che è accaduto nel lasso di tempo in cui mi trovavo lì a riprendere, e ho costruito l’arco narrativo del film seguendo questa idea.

Un film come Ex Libris è permeato di ottimismo e positività, come quasi tutti i lavori da lei girati negli ultimi anni. Il suo documentario vuole dipingere la parte migliore del mondo?

Spero che i miei documentari mostrino più parti del mondo possibile! Una delle cose che sto cercando di fare è coprire il più ampio spettro di soggetti, e nel corso della mia carriera ho mostrato la gentilezza, la crudeltà, la banalità, la gioia. Vedo i miei film come un insieme di lavori che si propone di illustrare il più ampio range di esperienze possibile. All’inizio della mia carriera, ho fatto un film su un manicomio criminale [Titicut Follies, ndr]… è solo una questione di sequenza tra i miei titoli.

Foto di Alessio Costantino

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