Come play, la recensione

Che gran peccato: ci stava andando piuttosto vicino Come play di Jacob Chase al raggiungimento del perfetto equilibrio metaforico. Si tratta di quella capacità dell’horror di mettere a nudo le nostre paure più profonde attraverso mostri e dinamiche che le incarnino, proponendo non solo rappresentazioni più o meno fantasiose ma soprattutto possibili riflessioni e, talvolta, anche risposte. Esattamente quello che aveva fatto Jennifer Kent con Babadook suggerendo di accudire il mostro incancellabile del lutto rinchiuso in cantina. Ed è quello che prova a fare in modo molto simile Come play raccontando l’isolamento sociale e comunicativo di chi vive nella bolla dell’autismo. Come play tuttavia sebbene abbia molte buone intuizioni (che partono dall’incorporare questo isolamento nel dispositivo tecnologico) e regga bene la tensione si lascia scappare la mano caricando di fin troppi significati il suo mostro  e i suoi schermi, offrendo così una risoluzione che non rie...