Il collezionista di carte, la recensione | Venezia 78

Esistono inquadrature che possono definire un film intero, anche quando sono slegate dalla trama. In Il collezionista di carte un panorama aerea su un giardino al buio punteggiato da “sculture” fatte di luci al neon (di fatto punti luminosi su fondo nero che disegnano figure), associato ad uno score quasi chill-out cantato, crea un momento sospeso come non è facile esperire in un film. È la punta spirituale di un film che non ha niente di religioso e tutto di astratto e intimo, trova l’elevazione nell’opposto del trascendente: nel tecnologico.
La storia è quella di un giocatore d’azzardo spinto dal desiderio di espiazione, che in quel giardino forse sta trovando una maniera per perdonare se stesso di quel che ha fatto, in un mondo sintetico che lo accoglie più di altri.
Ci vuole la testa di un animale del cinema come Schrader (e ci vuole un film intero) per partorire un momento simile così alto.

Will Tell, così si fa chiamare, lo in...