La vita che verrà – Herself, la recensione

Quando un padre mena una madre sullo schermo sappiamo che è solo il primo di una serie di abusi. Phyllida Lloyd dismette i fiori e il sole di Mamma mia!, abbandona il ritratto politico di The Iron Lady e si veste da Ken Loach per una storia pienamente loachiana di sofferenza e riscatto tramite una comunità di pari, in barba ad uno stato assente. Al centro non c’è un uomo e il suo lavoro ma una donna e la sua lotta per non perdere le figlie contro un marito che l’ha menata così tanto da romperle un polso. Lei ha trovato come scappare ma non trova la casa in cui stare. Deciderà di costruirla, perché (ammesso che si abbia un terreno in cui costruirla) paradossalmente costa meno. Solo che non si può fare da soli.

Proponendo meschina violenza verbale, psicologica e poi proprio fisica in eguali magnanime dosi di gentilezza, solidarietà e spirito di comunità, La vita che verrà ci inonda di zuccheri dopo aver creato un villain perfetto.