Love Hard, la recensione

I generi sono davvero solo degli scheletri, per questo è insostenibile la boria di chi su quello scheletro non sa costruire ma lo lascia così, male abbigliato ed esposto nelle sue dinamiche basilari, scarno e senza nessuna volontà o capacità di lavorarci. E sempre per questo invece quando arriva un film come Love Hard c’è da applaudire.
La storia di Love Hard è esattamente la stessa che vediamo in mille film da high school, quella in cui per qualche ragione la bella che vuole conquistare il bello deve fare un patto con il secchione che l’aiuterà e nel farlo i due si avvicinano, mettendo a confronto i due tipi di attrazione (che poi sono due tipi di relazione) per trovare quello più vero e onesto. Solo che non c’è la high school e quei personaggi sono traslati in un altro mondo creando altre dinamiche.

Daniel Mackey e Rebecca Ewing (al loro primo copione per un lungo) scrivono una storia che su quello scheletro apparecchia una trama di adulti che si comportano da ragazzi in una società che li agevola, in un trama da commedia sofisticata in cui una donna di città, lavoratrice e single in cerca di amore trova su un’app di dating un match per una volta buono, un bello che poi conosce via messaggio e poi ancora via telefono. Lei, che ha una professione da commedia americana anni ‘40 (columnist di questioni d’amore), con un mezzo moderno vive una storia da film di Hawks. Perché quando decide di fare una sorpresa all’uomo che ancora non ha conosciuto e lo va a trovare per Natale, scopre che quello con cui ha parlato non è la persona delle foto, ma un ragazzo molto sfigato che vive in casa con i suoi.

Qui l’intreccio si tende con molta efficacia, perché tutti hanno i loro problemi. Lei deve scrivere un articolo su questa storia, dunque deve viverla, il ragazzo per una volta vede nei genitori un po’ di fierezza per questa sua conquista bella e sexy e così stringono un patto, lei finge di essere la sua fidanzata e lui l’aiuta a conquistare il vero ragazzo delle foto.
E proprio come nelle migliori commedie non solo l’intreccio è ben congegnato ma le scene a cui apre, cioè la sceneggiatura a cui è funzionale, pure sono ben scritte, con gran capacità di creare un mondo interno di riferimenti dei personaggi che tornano lungo la storia, buona capacità di far ridere non solo con le parole (esilaranti e molto significative le foto di famiglia in carrellata in cui il protagonista è sempre l’unico male inquadrato, una vita di marginalità in un nucleo che richiede perfezione) e un gran gusto per la creazione di caratteri avvincenti. Addirittura (suona incredibile ma è così) c’è anche margine per riuscire a creare un minimo di sorpresa in un genere che si fonda sulla prevedibilità grazie alla capacità di Nina Dobrev e Jimmy O. Yang di interpretare i loro personaggi con sufficiente ambiguità.

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