Si potrebbe riassumere tutta la retorica di Pearl Harbor nella frase “i nostri ragazzi vanno a difendere la patria” (meglio se pronunciata con aria vagamente patriottica). 

Nel 2001 Michael Bay arrivava in sala con un film costato all’America quasi quanto i danni fatti dagli aerei nemici durante l’attacco da cui prende spunto (non contando l’inflazione). Promosso come il nuovo Titanic il film non ebbe il successo sperato al botteghino, costringendo alle dimissioni Peter Schneider, l’allora capo dei Walt Disney Studios.

Pearl Harbor era tutto quello che sarà il cinema di Bay a venire. Lo si vede sin dalla prima scena: i due protagonisti giocano da bambini con gli aerei, sono due grandi amici. Per un errore prendono il volo e provano per qualche secondo l’emozione dell’aria. Una volta a terra uno difenderà l’altro dal padre arrabbiato e l’esperienza li renderà migliori amici per la vita. Una sequenza che sembra scritta da un adolescente convinto che siano solo le emozioni a guidare i rapporti, che i sentimenti veri siano immutabili e rimangano come fondamenta per sempre. Psicologie tagliate con l’accetta e mimate dalla sceneggiatura.

Però come è girato bene quello sciocco momento!

La cinepresa è attaccata ai personaggi, ogni movimento li segue con fluidità, mentre il montaggio taglia su ogni movimento. I colori sono snaturatissimi, ma la fotografia e la musica sono cariche di atmosfera. E poi il frame che vende il film: l’aereo che gli passa sulla testa lasciando una scia di fumo con l’inquadratura tagliata in obliquo dall’alto verso il basso, è un’immagine fortissima. Eppure qualcosa nel film intero stona, e lo fa per tutta la durata della pellicola. Perché questi momenti si susseguono in maniera altalenante e spesso contraddittoria.

 

Pearl Harbor foto

Pochi anni prima, nel 1998 uscirono due dei più grandi film di guerra mai fatti: Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa. Spielberg e Malick raccontavano la guerra come quello che è: una crisi umana, un’esplosione di atrocità dove l’eroismo lascia il posto alla sopravvivenza nell’inferno. Lo fanno con grande equilibrio. La spettacolarità delle immagini (pur altissima) non superava mai le riflessioni filosofiche, la visione complessa dei personaggi e della loro psicologia. Era quell’esplorazione lì la ragione per cui quei capolavori erano nati. Partire dalla guerra per superarla.

I “ragazzi” di Michael Bay sono invece da un’altra parte. Dicono al pubblico per tutta la prima ora che ci si può divertire da matti con la guerra. Sono lì per l’adrenalina, per le belle ragazze e per sentirsi realizzati come uomini. All’epoca Bay fu accusato di non avere rispettato i veri fatti, di avere ritratto i giapponesi come dei nemici senza scrupoli, quando – ovviamente –  le cose avrebbero richiesto una sensibilità più spiccata. Ma il regista, sin dal prologo, rende palese di non volere la guerra come l’hanno messa sul grande schermo Spielberg e Malick. Lui la vuole mostrare come i suoi personaggi (e il giovane pubblico) se la immaginavano al momento dell’arruolamento.

L’esito è un disastro cinematografico, moralmente a tratti imbarazzante, altre volte proprio irricevibile. Ma talvolta ipnotico e divertentissimo. 

Pearl Harbor non è (solo) un film di guerra. È (anche) un college movie in caserma, o più precisamente, uno stereotipato film di formazione di giovani che devono diventare uomini. 

I ragazzi vanno in guerra”, dicevamo… ma anche, “i nostri amati figli” (sempre da leggere con il tono retorico delle vecchiette che nei film salutano gli aerei che partono). La sceneggiatura di Pearl Harbor disegna infatti i co-protagonisti come ragazzini, partendo da quegli stereotipi che John Hughes distruggeva in Breakfast Club. C’è il belloccio sportivo, il timido balbettante, l’emarginato, l’amico di tutti. E ancora le ragazze belle ma stupidotte contro la ragazza bella e intelligente. Lei, la donna dei sogni, la motivazione perfetta per essere soldati sempre migliori, sempre più belli, abbronzati, morti e risorti. Tutti angelicati, tutti cantati con una gran voglia di fare poesia nell’età dell’innocenza (insomma…). 

L’intera prima metà del film (che si divide drasticamente in due dopo l’attacco nemico) si appoggia al concetto di “noia”, spesso fondamentale nei generi sopra citati. I personaggi non sanno come passare la giornata, trovano quindi da fare in intrecci amorosi e sortite notturne. Esplorando la base militare le infermiere guardano quasi con delusione i lettini vuoti; i piloti invece cercano la guerra, si sentono inutili ad addestrarsi e basta.

Un terribile attacco allo spettatore arriva e non lascia scampo proprio in questo moralismo. Un esempio è l’inquadratura delle memorie dei soldati morti. Nella fotografia in ricordo Rafe McCawley (Ben Affleck) è in mezzo ad altri due compagni. Loro sono morti in allenamento, c’è scritto, lui invece in guerra. Con tutto il machismo filo-bellico che ne consegue.

Proprio come nei film scolastici, a contare sono però i legami di amicizia. Top Gun lo faceva già molto meglio nel 1986 (tanto che si è da poco riaperto un dibattito su una presunta lettura omoerotica). Bay venne accusato di essere troppo derivato del film di Tony Scott. Una critica lecita che trova conferma nella dinamica tra Ben Affleck e Josh Hartnett. Il loro rapporto è l’unico vero dramma. Anche quando esplode la carneficina, quello che conta è la tenuta del legame tra i due (e la donna-angelo).

Anche Top Gun faceva così, usava la noia dei personaggi come innesco dei motori dei caccia. Però Scott deduceva l’adrenalina dalle situazioni in cui si cacciava Tom Cruise. Bay invece usa l’intero film come cassa di risonanza in cui suonare più forte tutte le spettacolari note che lo strumento gli dà a disposizione. Non cerca l’adrenalina dai momenti, ma dal mezzo cinematografico in assoluto.

Perché la scena centrale, il selling point del film, è il film stesso. L’attacco a Pearl Harbor è il momento in cui il Michael Bay di Armageddon incontra la guerra. E lo spettacolo cinetico è indubbiamente affascinante. 

La battaglia inizia con un’altra inquadratura speculare a quella del prologo. Ancora due bambini che osservano l’orizzonte, ma questa volta non c’è un aereo privato che sorvola la loro testa, ma un intero esercito portatore di distruzione. 

 

Pearl Harbor foto 2

 

I 40 minuti che seguono son un tripudio di esplosioni, di montaggio ed effetti sonori. Una bomba viene sganciata sulla portaerei, la sua caduta è seguita senza stacchi. Siamo quasi nella soggettiva dell’ordigno, come se la cinepresa fosse attaccata. La seguiamo fino a dentro il metallo della nave.

Quale migliore immagine per raccontare che cos’è il cinema di Michael Bay? Quando arriva il momento dell’azione, tutta la prima ora di relazioni vane, di rapporti di odio e di amicizia cade. È l’azione che diventa il soggetto, il protagonista della sequenza. In quel momento al regista interessano di più gli aerei di chi li guida. Red Winkle (Ewen Bremner) filma l’attacco con la cinepresa, segue i suoi compagni come un cineoperatore. Viene colpito e muore. Succede senza enfasi, quasi distrattamente. Lo vediamo perire non sullo schermo, ma nella pellicola della sua stessa cinepresa. Ancora una volta è l’oggetto che interessa Bay ancora prima della carne.

Il problema è che dopo questa parentesi Pearl Harbor ritorna ad essere quel grande spot all’esercito, quell’invito ad arruolarsi rivolto a giovani di cui, evidentemente, non è in grado di comprendere i pensieri e le emozioni. I “ragazzi” non smettono di vivere la loro vita con la guerra. Non mettono da parte i drammi personali, le incomprensioni d’amore, le loro piccole storie. Ritornano protagonisti, senza mai riuscire a fondersi con la grande storia delle nazioni. 

Pearl Harbor fu una forte asserzione di come si possa mostrare la guerra anche con divertimento estetico e adrenalina. Ma si perde in un dramma di formazione fatto di vite che si incrociano e che continuano ad esistere nonostante il mondo bruci. Questi giovani non appaiono mai come persone cresciute in tempi difficili. Sono moderni, spensierati. Pensano come uno spettatore degli anni 2000, e mai come una persona nel fiore degli anni che, da un momento all’altro, può trovarsi l’esistenza spezzata.

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