Quest’anno al cinema si è mangiato tanto, non bene, e sempre con un conto salato. Il primo è stato David Cronenberg, con la sua ossessione per la carne e per il corpo che la ingurgita. Crimes of the Future ha aperto l’anno cinematografico più culinario di sempre inventando nuovi organi per un nuovo cibo da consumare. Un cinema che ha finalmente riscoperto la carnalità. Cioè le esigenze del corpo. Bisogna nutrirsi, dormire, stare a contatto con la natura. Un rimbalzo tematico potremmo dire. Le produzioni in lockdown, quindi parte di quelle viste a inizio anno, erano segnate dalle riflessioni sugli spazi e sulle solitudini esistenziali. 

Il cinema ha ripreso invece l’uomo come famelico, cannibale nelle sue passioni. L’amore giovanile di Guadagnino in Bones and All usa il cannibalismo come una condizione con cui si nasce. Quello di Maren è normalizzato dall’incontro con altri come lei. Tolto l’aspetto di perversione è diventato un istinto a cui resistere (o abbandonarsi). In un toccante finale dai toni mistici (il corpo e il sangue donato al prossimo) sesso, sentimenti e nutrimento si incontrano in scena. Un cannibalismo molto diverso da quello di Dahmer. Lì è senza ambiguità un atto di morte. Nel fantasy\horror di Guadagnino è un donarsi tra la vita e la morte (ci sono cannibali “etici” nel film). 

Nel cinema italiano siamo sempre stati molto bravi a mettere il cibo al centro dei rapporti famigliari, come un catalizzatore che attira verso tavolate in cui tutto si scioglie e si facilita. Non sono mancate neanche quest’anno le mangiate in compagnia. È all’estero però che il cibo si è tramutato in un oggetto di scena con personalità. È diventato il protagonista dello stare insieme e un’espressione della personalità di chi lo prepara o lo mangia.

In Triangle of Sadness la bruttura dei ricchi in crociera è rappresentata da una sorta di grottesca ribellione del cibo che si rifiuta di essere ingurgitato. In una lunga sequenza di mare mosso esplode il vomito, contagioso, in un contesto di lusso. Le pietanze, probabilmente andate a male per l’incuria, sono nel terzo atto dei McGuffin fondamentali per gli equilibri della micro società. Naufraghi, ricchi e poveri hanno subito la famosa livella sociale. Chi possiede il cibo, chi sa cucinarlo, ha il potere. Un po’ come nelle scene iniziali, in cui la parità di genere è definita proprio da chi paga il conto al ristorante.

Il cibo come sport

Ci sono stati poi, immancabili, i tradizionali film culinari. Sì Chef – la brigade e Tuesday Club – Il talismano della felicita, dove la cucina è un hobby o un’attività sociale. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa: ago e filo, uno sport, un club del libro. Più che l’oggetto in sé conta quello che fa sulla gente. Si creano così amori, relazioni forti, addirittura nel più riuscito Sì Chef si riesce a inserire una tematica sociale forte, come l’integrazione degli stranieri e l’efficacia dei centri di accoglienza nel dare un futuro a queste persone, usando proprio la metafora dei cuochi professionisti. Ognuno può portare la propria cultura nel piatto che è la società senza confini. 

In questi film cucinare è come cercare di battere un record. Non si fa mai in solitaria, richiede una squadra e tanto allenamento. C’è questa sensazione guardando The Bear, la riuscita serie tv su Disney Plus, e anche Boiling Point, il riuscito film di Philip Barantini. I due condividono un uso adrenalinico del piano sequenza e una rappresentazione da girone infernale della cucina. Particolarmente azzeccata nel film è l’idea che dietro le quinte succeda il finimondo, che non appare mai oltre il bancone, dove la gente cena tranquillamente. In The Bear è il contrario: il disastro nella vita dei personaggi si ripercuote in cucina e con i clienti.

Un menu variegato

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Il cinema si è anche vendicato portando a cena le proprie vittime. In The Menu di Mark Mylod sono le deliziose pietanze ad attaccare i pochi ricchi che se le possono permettere. L’1% è stato raccontato attraverso ciò che ingerisce. Un legame ecologista (qual è il costo del loro benessere?) non ancora esplicito ma che è già in nuce a queste opere. Addirittura sono i piatti stessi a svelare i segreti di chi li mangia. E soprattutto: cosa stanno realmente mangiando? 

Dato che non si può fare a meno di nutrirsi, lo chef a cui il pubblico si affida ha un potere quasi assoluto. È l’eroe o il villain per eccellenza. Propone, prepara, sottopone una sua creazione (a volte anche d’arte) che viene masticata. Ci siamo riscoperti voraci, cannibali, desiderosi di un rapporto quasi erotico con ciò che ingeriamo. È quello che accade nella società dei consumi, dove la bellezza viene acquistata e, nelle mani di pochi, non dura. Dove i rapporti sono funzionali a qualcosa: in cui i potenti sfruttano le risorse, anche umane, per il loro tornaconto. In questo senso il cibo, quest’anno, è stato ribellione.

Qualcosa di troppo?

Presentato a Venezia a settembre, ma in arrivo sugli schermi italiani solo nel 2023, c’è un film che chiuderà il cerchio di questa casuale attenzione del cinema al nutrimento. The Whale. La toccante storia di un uomo gravemente sovrappeso, arriva nel momento perfetto in questo discorso. Nel 2022 il cinema ha filmato quello che può essere il cibo come valore simbolico e quello che fa sulle relazioni. Darren Aronofsky insieme a Brendan Fraser inverte la prospettiva: indaga l’uomo che sente il bisogno di nutrirsi. I meccanismi compensativi, i disturbi dell’alimentazione. 

Eppure, contrariamente a quanto fatto dagli altri, in The Whale il cibo è neutro. Non è né bene né male. È semmai l’uso che se ne fa, le quantità ricercate, e il perché lo si mangia, a ferire il soggetto. Come nel Prodigio, dove una ragazzina viene osservata da una suora e da un’infermiera perché ha dichiarato di poter vivere senza mangiare. Due prospettive di una stessa analisi psicologica. 

Sono i vuoti che abbiamo dentro a ucciderci. L’azione del mangiare o non mangiare è una manifestazione esteriore di una ricerca interna sia all’individuo che alle comunità. Il cinema ha detto, chi con più chi con meno retorica, che c’è un altro tipo di nutrimento che non può essere sostituibile e che è il centro del cinema post lockdown: la presenza delle altre persone.

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