Quanto è debole, 20 anni dopo la sua uscita, Atlantis – L’impero perduto, e quanto è difficile parlarne male. Ci sono una miriade di problemi su più livelli, ma riguardandolo viene da partecipare con ammirazione a un tentativo di spostare il proprio bersaglio fuori dagli schemi ben consolidati. “Uscire dalla zona di comfort” diremmo oggi. Basterebbe la scelta di abbandonare la forma musical, da sempre marchio di fabbrica Disney, per strappare almeno un applauso. Soprattutto vista l’intenzione di sostituire i momenti di esposizione della psicologia dei personaggi attraverso canti e balli con la pura e semplice azione.

Viene da pensare che cosa sarebbero i classici Disney se Atlantis avesse avuto il successo sperato.

Invece, nonostante le lodevoli intenzioni, l’esperimento è tutt’altro che riuscito. Il principale problema è quello di ritmo: parte con un prologo strepitoso e drammatico. Detiene il secondo posto come film della casa di Topolino con il maggior numero di morti dopo l’imbattibile primato di Dinosauri. È rapido, secco, spettacolare nella misura più inaspettata. Una qualità che si ritroverà solo nel finale, la cui animazione è così ben fatta che sembra prodotta da un team differente e attaccata al film senza nemmeno uniformare le parti. Il ritmo è giusto, la tensione alta (nei limiti concessi dalla storia), e soprattutto è coinvolgente. Cosa che non è il resto di Atlantis.

Nella lunghissima parte centrale seguiamo Milo Thatch (in originale doppiato da Michael J.Fox), un inetto, che inspiegabilmente ha anche dei tratti geniali. È convinto di essere vicino alla scoperta di Atlantide. È capace di leggere manoscritti che nessun altro sa decifrare, ma viene deriso dalla comunità accademica. Improvvisamente viene chiamato all’avventura da un vecchio magnate. Parte per una spedizione che lo porterà nel mare dell’ Islanda, dentro una sacca d’aria nella terra in cui è sopravvissuta la civiltà atlantidea.

 

Atlantis - L'impero perduto

Senza troppo stupore, Milo e i suoi compagni scoprono un’umanità sostanzialmente aliena. Nonostante non vedano la luce solare da millenni hanno la carnagione scura, quasi latina. Si vestono e hanno edifici simili a quelli della civiltà Inca misti alla antica Grecia. In Islanda. Sopravvivono grazie a una gigantesca batteria di cui hanno dimenticato però l’uso e il funzionamento.

La cosa che oggi stona di più, e che è difficile pensare che non si fosse notata anche con la sensibilità dell’epoca, è che qui il colonizzatore fa tutto. Distrugge, conquista, ma insegna anche a usare i doni che ha quella civiltà. Non solo: spiega a loro stessi i loro usi e i costumi, la loro lingua e il senso delle scritture! Non chiediamoci come Milo, incapace di sopravvivere a sé stesso, avesse capito la giusta pronuncia dei geroglifici che nemmeno gli atlantidei ricordavano. E la faida con gli accademici? Già dimenticata, lasciata nel lontano primo atto del film.

E non siamo nemmeno a metà! Insomma, Atlantis fatica moltissimo ad arrivare al dunque (ovvero sotto il mare) e quando ci arriva non riesce a trovare una ragione semplice per restarci. È vero, assomiglia molto ad Avatar di James Cameron che, qualche anno dopo, si rifaceva su un canovaccio simile, prendendo gli stessi pregi e gli stessi difetti. Però almeno lì c’era una ragione fisica, carnale, per restare su Pandora. Non solo gli interessi economici, ma anche per Jake Sully un potenziamento del corpo, l’innamoramento e la condivisione della civiltà. In Atlantis è il contrario: sono gli abitanti che quasi si attaccano a Milo come colui che gli ridà la loro essenza dimenticata.

Il protagonista, d’altro canto, palesemente resta sotto il mare per sfuggire dalla superficie. Ma il film ce lo mostra come una vittoria. Siamo sicuri che sia così? Fuggire da un mondo che ti respinge, trovarne un altro e restarci è proprio una soluzione facilotta che appiattisce il personaggio insieme ai disegni. La sua squadra non è da meno. Cattivi cattivissimi sia nell’animo che di faccia. Molti cambieranno indignandosi per un atto di violenza visto, dopo averne perpetrati a loro volta senza problemi. Un twist incomprensibile emotivamente che libera però il film dal freno a mano e lo fa rituffare nell’appagamento visivo dell’azione.

 

atlantis sequel impero perduto

Perché alla fine Atlantis – L’impero perduto sembra tantissime cose trite e ritrite, ma è un tentativo lontanissimo dal canone Disney. Va ad attingere nell’estetica anime, da cui prende il ritmo interno, i movimenti dei disegni. Il character design è stato curato, tra i tanti che ci hanno lavorato, da Mike Mignola e si vede! Il creatore di Hellboy fumettistico ha lasciato il suo stile a linee sottili e squadrate. A volte però gli animatori creano espressioni orribili ai personaggi, dimostrandosi poco a loro ago con quello stile. Fortunatamente il più delle volte l’effetto è originalissimo. Soprattutto ad Atlantide, dove i corpi diventano importantissimi nel racconto. 

La principessa Kida ha un corpo sessualizzato nella maniera in cui viene usato per comunicare un fascino lontano da quello di superficie. Moliere è un uomo talpa, con delle linee rotonde che rivelano tutto, forse troppo: passione, lavoro, carattere e bonarietà. I muscolosi sono muscolosissimi e le donne fatali (Helga Sinclair viene dal Noir).

Con una spruzzata di grafica 3D nei momenti giusti, Atlantis stupisce per la qualità dell’animazione. Con un formato cinemascope, insolito rispetto a quello più quadrato e televisivo, dichiara la sua intenzione di ambire ad essere un grande kolossal.

Ecco, sta proprio qui il punto di interesse di tutto il progetto. Alcune voci hanno recentemente fatto cenno a un possibile remake in live action del film. Diversamente dagli altri adattamenti questo sembra la versione più logica. Perché l’originale cade sotto una straordinaria ambizione non controllata. Sia artistica che economica, si intenda. Il film doveva generare una serie tv e brandizzare le attrazioni dei parchi a tema, dato l’insuccesso economico dovettero ridimensionare il tutto. 

Però a livello narrativo c’è tutta quell’atmosfera da grande film d’avventura. A volte se ne vede anche il respiro e la portata, seppur costretti da un’ora e mezza di durata. Sarebbe dovuto durare molto di più. Ma soprattutto è chiaramente un prodotto fatto con il live action in testa, che cerca di andare a parare in quel tipo di cinema lì, trovando però la versatilità del disegno animato.

Atlantis è un adorabile fallimento animato, che avrebbe potuto essere un grande film con attori in carne ed ossa. Lo sarà mai?

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