Bohemian Rhapsody è arrivato questa settimana su Netflix.

Capita, a volte, di associare a un film un ricordo esterno, cioè non legato alla stretta esperienza di visione. Si possono ricordare serate piacevoli davanti a una pellicola, ma non saper raccontare nulla della trama o degli attori. Ci sono amori che nascono e altri che finiscono davanti a uno schermo. In quel caso la memoria non andrà certamente ai colpi di scena proiettati. Altre volte, addirittura, si può venire segnati da un film senza averlo mai visto.

Chi vi scrive, ad esempio, ricorda benissimo le locandine delle pellicole “di paura” appese nei pressi di un cinema e da me osservate con timore da bambino. Ne conservo un ricordo molto più vivido del film stesso visto vent’anni dopo. Nel caso di Bohemian Rhapsody mi è impossibile pensare a quello che ha fatto Dexter Fletcher (possiamo includere anche Bryan Singer?) senza associare un qualcosa che ben poco c’entra con la visione. Eppure è un siparietto curioso, di quelli che attirano l’attenzione e da cui è impossibile scollarsi, che racconta benissimo cosa è stato Bohemian Rhapsody. Sì, anche qualitativamente.

Era una anonima serata di un anno, il 2018, che sembra lontanissimo. Il mondo della settima arte lamentava una crisi inesorabile. Le cose, si diceva, non erano più come un tempo. Intendendo però che non erano come negli anni ’70. Infatti, nonostante la fatica, da almeno vent’anni gli incassi, anno in più anno in meno, oscillavano senza drastici cambiamenti. All’estero le cose andavano bene. Sul mercato italiano invece ci si agganciava a pochi titoli che riuscivano a reggere un’intera stagione.

Bohemian Rhapsody fu un fenomeno sperato, ma inaspettato. Superò di gran lunga le aspettative ottenendo teniture incredibili per un film contemporaneo. A distanza di mesi ancora alcune sale lo proiettavano in versione karaoke. La gente non solo lo ha visto, ma è tornata più volte a vederlo. E la cosa strana è che il film, a ben guardare, non è nemmeno gran ché.

Rami Malek fa un’imitazione di Freddie Mercury basata sugli occhi e sulla bocca. Recita solo con quei due elementi. E tira fuori un’interpretazione così ruffiana, finta, piena di strizzatine d’occhio e così “intensa intensissima” da strappare un Oscar come miglior attore. A volte l’Academy confonde chi “si vede che recita molto”, con chi recita bene. Spesso l’immedesimazione è più estetica che intima. Ma va bene così.

Il problema è che Bohemian Rhapsody, al netto delle imprecisioni storiche, è un film che funziona a sobbalzi. Che sembra girato da tre registi quando in realtà è fatto “solo” da due. Trova nei momenti musicali tutto il suo godimento, ma che fatica arrivarci! Tra drammi sotto la pioggia, crolli emotivi, il film è tutto quello che viene in mente a una prima idea. Ovvero convenzionale. Semplice, senza guizzi che non siano altro che una banale messa in scena di fatti e dialoghi svogliati. 

Tutto questo fino al Live Aid. Il gran finale, il momento di vero sfogo in cui il progredire sempre contenuto esplode nella soddisfazione musicale. Anche se, cinematograficamente parlando, quel racconto di quel momento vale poco meno della cronaca. È ripreso pari pari dai filmati del 1985. Riprodotto fedelmente per la gioia dei videosaggi di YouTube e delle comparazioni side by side. A parte quella di fare tutto identico, sfido a trovare un’idea di regia in quella sequenza.

 

Bohemian Rhapsody

 

Torniamo a quella serata anonima del dicembre 2018.

In un cinema di Milano si sta per concludere il primo spettacolo serale. Una donna di mezza età si avvicina alla cassa. Chiede un biglietto per Bohemian Rhapsody, ma le viene rifiutato. La proiezione è quasi terminata, al massimo può aspettare e prendere per quella dopo. La signora insiste: chiede per favore di potere entrare lo stesso in sala. Non le importa, il film l’ha già visto qualche giorno prima e oggi era lì per vedere altro. Solo che uscendo dalla sala era passata vicino a quella di Bohemian Rhapsody, ha sentito che stava finendo e l’è venuta voglia di rientrare. Ma non per vedere il film, per sentire gli ultimi 20 minuti! Quelli del concerto ovviamente. Che sono bellissimi!

Arrivati a questo punto capisco i lettori che troveranno inverosimile la scena. Ma se mi sono fermato a osservarla era perché io stesso ne rimasi stupito. Accettarono. La signora entrò e si vide, o meglio si ascoltò, tutto il terzo atto.

Io penso a questo quando ripenso a Bohemian Rhapsody. Al fatto che non c’è nessun luogo in cui la musica suona come al cinema. Con il surround avvolgente, il volume leggermente più alto del necessario che fa vibrare la sedia e il buio illuminato solo da uno schermo. Lì un concerto si sente bene. Certo, non è la stessa cosa che essere dal vivo, ma pochi impianti di alta fedeltà possono riprodurre l’esperienza allo stesso modo.

E soprattutto per un breve periodo si è pensato che i film musicali (non i musical) potessero diventare la nuova gallina dalle uova d’oro. Quando il più valido Rocketman incassò bene, ma non benissimo, gli entusiasmo si smorzarono. Quella dei Queen non era una formula replicabile, non senza difficoltà. Peccato, perché sarebbe stato semplice andare a pescare da tutte le band più amate, ritoccare la “b(r)and reputation” (non fu così per Elton John) e incassare vagonate di denaro. 

Bohemian Rhapsody fu un fenomeno incomprensibile e solitario. Non ci vuole però un master in marketing, o un occhio analitico, per capire che cosa rende speciale questo prodotto pensato e realizzato con leggerezza.

Sono i Queen, ovviamente.

Perché Taron Egerton è infinitamente più bravo di Rami Malek, soprattutto perché lui, le canzoni di Elton John, le ha cantate veramente! Invece Bohemian Rhapsody, nel suo essere un’imitazione pari pari, una cosa l’ha azzeccata: non cambiare nulla. Lasciando le canzoni originali dei Queen, il film ha trasformato il cinema in qualcosa di diverso. Non una sala in cui vedere un film, ma un luogo dove ascoltare una traccia del passato riconfezionata come un’esperienza moderna. Lì dentro abbiamo tutti cercato un ricordo, abbiamo grattato la superficie per trovare la vecchia vernice tanto amata.

È questo Bohemian Rhapsody: un film a cui siamo disposti a rinunciare per avere di nuovo qualcosa che conti. Ovvero la musica che lui stesso omaggia. Bohemian Rhapsody è una signora che entra alla fine solo per ritornare a vivere quella straordinaria performance di Freddie Mercury. È il fantasma del cantante che hanno cercato di riportare in vita facendoci vedere un’imitazione, ma che si può sentire vicino solo chiudendo gli occhi e lasciandosi cullare. 

Almeno per venti minuti.

Trovate tutte le notizie su Bohemian Rhapsody nella nostra scheda del film.

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