Bullet Train è in arrivo su Prime Video.

“Elimina tutto ciò che non ha rilevanza per la storia. Se nel primo capitolo scrivi che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o al massimo nel terzo devi per forza farlo sparare”. Così scriveva – in una delle tante variazioni sul tema – il drammaturgo russo Anton Pavlovich Čechov: era un consiglio che dava sempre ai suoi studenti, che nel tempo è diventata una delle regole d’oro non solo della scrittura di romanzi, ma anche della cinematografia, e più in generale di qualsiasi arte narrativa. Bullet Train di David Leitch, tratto dal romanzo Mariabītoru di Kōtarō Isaka, sembra tante cose: un film di Guy Ritchie ancora più cool e meno sporco, una tarantinata come non se ne facevano da un po’, uno spin-off più logorroico di John Wick. Più di tutto quanto, però, sembra un film che prende il consiglio di Čechov molto a cuore, solo che, invece di farci vedere una singola pistola facendoci domandare “quando sparerà?”, ci mostra un intero arsenale, sul quale costruisce tutta la sua storia.

Curiosamente o forse no, Bullet Train si apre con una pistola abbandonata al suo destino, e che non rivedremo mai più per tutto il resto del film. È quella che Ladybug (nome in codice Brad Pitt) abbandona nell’armadietto dal quale ritira le istruzioni per la sua prossima missione: il ragazzo è stressato, ha cominciato ad andare in terapia e ha deciso di abbandonare, se può, la strada della violenza per dedicarsi a guarire il mondo. Questo perché Ladybug è un mercenario che viene assoldato dalla misteriosa voce di Sandra Bullock per compiere pericolose missioni in giro per il mondo: l’ultima in ordine di tempo prevede di recuperare una valigetta pulpfiction-iana da un treno che va da Tokyo a Kyoto, e siccome il lavoro sembra facile il nostro eroe decide di assecondare le richieste del suo terapista e di non portarsi con sé la pistola.

Bullet Train Pitt

Prima dicevamo che Bullet Train potrebbe sembrare uno spin-off di John Wick, se non fosse in realtà l’adattamento di quello che peraltro è il secondo romanzo di una trilogia. Ladybug non è l’unico mercenario che conosciamo: anzi, come nei film con Keanu Reeves veniamo da subito immersi in un mondo nel quale sembra che la gente normale faccia da sfondo, e che sia talmente abituata a essere circondata da assassini prezzolati e agenti segreti sotto copertura da non stupirsi se ogni cinque minuti scatta una sparatoria o un inseguimento. È lo stesso approccio, appunto, di John Wick e in misura minore di Atomica bionda: ormai possiamo affermare che quest’idea di portare in primo piano il sottobosco criminale e relegare la normalità allo sfondo sia parte integrante dell’immaginario di David Leitch.

Per cui, oltre a Ladybug facciamo la conoscenza di un ampio cast di gente poco raccomandabile: la coppia composta da Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry, che è sul treno per salvare il figlio di un mafioso russo e recuperare la stessa valigetta di cui sopra; The Prince, cioè Joey King, misteriosa ragazzina viziata e completamente amorale che è sul treno per compiere una vendetta personale; The Wolf (Benito Martinez Ocasio), un killer messicano che… insomma, avete capito, non vi serve l’elenco completo: Bullet Train è un film popolato di brutta gente che si ritrova a condividere lo stesso viaggio in treno per motivi che all’inizio sembrano casuali, ma che verranno pian piano svelati in una sorta di versione in movimento di Invito a cena con delitto.

Joey King

Avendo a disposizione così tanti fili narrativi da intrecciare senza perdere coerenza, Leitch fa quindi quello che dicevamo sopra, e costruisce l’arsenale di Čechov: tutto Bullet Train è disseminato di elementi (spesso ma non sempre oggetti inanimati) che torneranno prima o poi utili alla trama, anche nei modi più stupidi e imprevedibili. La valigetta è solo l’esempio più facile, e anche più abusato. Ma c’è anche, per dire, una singola bottiglietta d’acqua diventa a un certo punto protagonista di una personale epopea utile a spiegare una serie di passaggi narrativi lasciati fin lì in sospeso. C’è un serpente su quel treno, che per quasi due ore compare senza interagire in alcun modo con il resto del film: eppure, proprio per la regola del succitato drammaturgo russo (e anche perché è un serpente molto velenoso), ogni volta che compare in scena genera tensione, perché sicuramente prima o poi dovrà entrare in azione.

Bullet Train diventa così un film di persone che inseguono oggetti, e le cui traiettorie occasionalmente si incrociano per pura statistica. Ovviamente, avendo a disposizione uno spazio limitato, queste linee ideali si fanno sempre più fitte con il passare dei minuti, fino a trasformarsi in un gomitolo che viene svolto a colpi di pistola nel terzo atto. Ma tutto il film è un grande gioco di equilibrismo, quasi un esperimento: per quanto a lungo possiamo far finta che queste dieci, quindici, venti persone siano scollegate tra loro e si stiano incrociando solo per caso nel corso delle loro personali missioni.

Yakuza

Se poi volete parlare non di struttura ma del risultato finale, bisogna ammettere che non tutto in Bullet Train funziona come vorrebbe, per i soliti motivi. Innanzitutto, come capita ormai sempre con film di un certo calibro, è troppo lungo, nel senso che il suo contenitore di storie ne contiene un paio che rallentano il ritmo, creano confusione inutile e si potrebbero tranquillamente tagliare ottenendo un film migliore (scusaci, Zazie Beetz). E poi è fin troppo impegnato a costruire scatole cinesi e a saltare avanti e indietro lungo le linee temporali, tra flashback e flashback dentro flashback (flashbackception), per non stuccare alla lunga: il treno su cui si svolge il film tira dritto fino alla fine, mentre a bordo la storia va in troppe direzioni contemporaneamente.

Ciò detto, meglio un film che sbaglia per eccesso di generosità ed entusiasmo che uno che prudentemente danza sul confine della sufficienza senza mai mettere il piede in fallo. E se vi piacciono i meccanismi di scrittura, Bullet Train è un bell’esempio di come prendere una regola base del raccontare una storia e costruirci intorno un intero film.

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