Canto di Natale di Topolino è denso. Lo si capisce facendone esperienza attraverso due età diverse. Quella di un bambino, che entra nella storia impregnata di buoni sentimenti, ma anche da una piccola dose di amarezza, e si trova davanti a una sovrabbondanza di eventi e personaggi. L’altra, quella di un adulto, magari con il ricordo delle VHS consumate anni addietro, a rendersi conto, con stupore, che il film è un mediometraggio che fa tutto quello che deve in meno di trenta minuti.

Incredibile.

Il regista, Burny Mattinson, non è certo uno dei nomi più in vista della Disney, ma ad oggi è l’impiegato con i maggiori anni di servizio nella compagnia. Ha iniziato a lavorare come “inbetweener”, l’animatore che si occupa di disegnare fotogrammi che vadano ad arricchire il movimento tra due punti chiave. Continua come storyboard artist contribuendo alla stesura di storie come La Bella e la Bestia, Aladdin, Il Gobbo di Notredame e Il Re leone.

Nella sua regia del Canto di Natale di Topolino si vede tutta l’esperienza maturata dietro le quinte.

Non ha paura infatti di riempire le immagini di una densità impressionante di particolari. Non si contano i camei all’interno del film. Alcuni si notano al primo colpo d’occhio, come il Grillo parlante o Cip e Ciop. Altri richiedono un po’ più di attenzione: ci sono i tre piccoli porcellini che intonano canzoni nella neve, Lady Cocca che balla tra la folla, Madre Coniglio, Sis, e molti altri. Non mancano però anche gli oggetti, sempre presenti in abbondanza a riempire le inquadrature in strada e in tutte le case, anche le più povere, tranne in quella di Scrooge. 

È un lavoro visivo sul senso della solitudine non indifferente, rafforzato dall’uso dei colori e delle ombre per creare inquietudine. Le enormi dimensioni del fantasma del Natale presente sono esaltate dalla luce fioca che viene dal basso proiettando sul soffitto un’ombra quasi spettrale. Il futuro invece è per Ebenezer Scrooge un inverno costellato di alberi senza foglie in un cimitero senza vita. 

 

 

La sua guida in questo segmento ha un sigaro tra le mani (tipico di Pietro, che “interpreta” il fantasma del Natale futuro). Il fumo si mischia alla nebbia densa. La figura indica a Scrooge cosa guardare. L’inquadratura segue il dito con un leggero movimento panoramico a destra. Lontano c’è Robert Cratchit con la sua famiglia che piange la scomparsa del piccolo Timmy. A questo spostamento della macchina da presa segue uno zoom in avanti, che continua con un jump cut verso le lacrime del povero padre. È un momento durissimo, che il montaggio racconta come un lento avvicinarsi silenzioso. È un movimento irreale e soggettivo. Proprio come uno spettro che attraversa in volo la neve fino al primo piano.

Oltre a queste delicatezze, c’è però anche un grande senso del ritmo. Passa in rassegna uno dopo l’altro tutti i punti essenziali del Canto di Natale di Dickens, ma non si ha mai l’impressione che il film stia correndo troppo. Anzi, l’inizio è disteso e generoso in termini di tempo e dialoghi. Tutta la sequenza tra Scrooge e Cratchit in cui il povero dipendente cerca di scaldarsi mettendo del carbone nella stufa, scontrandosi con l’avarizia del vecchio, è un momento di pura recitazione.

I personaggi storici della Disney, come Topolino, Zio Paperone, Paperino, Pippo, sono usati come veri e propri attori caratteristi. Immaginiamo il casting virtuale fatto dal regista per assegnare le parti. Scrooge non poteva non essere Paperone, Pietro era destinato ad essere il più inquietante dei fantasmi. A pensarci bene è insolita la scelta di Topolino come povero, parte forse più adatta a Paperino, ma probabilmente durante le “audizioni” si sono presentate alcune difficoltà a esprimere commozione invece che rabbia o bonaria ingenuità. 

Canto di Natale di Topolino nasce da un musical del 1974 in audiocassetta intitolato An Adaptation of Dickens Christmas Carol. Il film mantenne l’impostazione ad eccezione dei sei numeri musicali presenti. Il prodotto finito è molto più coraggioso e sperimentale di quanto si possa pensare oggi. Mickey Mouse infatti era lontano dalle scene da un bel po’ di tempo. Precisamente dal corto Topolino a pesca del 1953, ultima sua apparizione nelle sale cinematografiche. Canto di Natale di Topolino inizialmente doveva essere uno speciale CBS per l’anno 1982, ma non fu completato in tempo per via di uno sciopero degli animatori. Il mediometraggio debuttò sul grande schermo nel 1983 insieme a una riedizione di Le avventure di Bianca e Bernie, in America, e del Libro della Giungla in Inghilterra. 

Con il film si riscopre la centralità del topo simbolo della Disney. Si ritorna a inquadrarlo con affetto, dopo che la scena gli era stata da tempo rubata dalle gag di Pluto. L’accumulo di personaggi ben noti ha un valore ancora più toccante, ben oltre la semplice comparsata, ma come un ritorno alle origini e un cambiamento radicale.

Si trascura troppo spesso come adattare il classico di Charles Dickens in una forma per bambini e, ripetiamo, in soli 26 minuti, non sia affatto semplice. Soprattutto mantenendo tutti quei balzi emotivi e i cambi repentini di atmosfera che rendono l’opera così memorabile. C’è un incontro tra due realtà: quella del classico e quella dei personaggi animati. Non sono più i protagonisti delle fiabe a interpretare sé stessi, ora è Paperone a recitare la parte di Scrooge. “Prestandosi” a svestire i panni suoi (ovvero quelli reali visti nei normali cortometraggi) per prendere quelli pensati da Dickens. 

È un’animazione che si mette a disposizione, che ritorna alta e ambiziosa rispettando la fonte letteraria non nella precisione filologica, ma nel cuore tragico. 

Per questo Canto di Natale di Topolino è ancora oggi una prova monumentale di inventiva (cercarono di replicarla nel 1990 con Il Principe e il povero). Un’esperienza di visione incontenibile che appaga i più piccoli, ma anche chi riesce a coglierne gli aspetti più drammatici. Ma soprattutto è un lavoro ipnotico, che tiene attaccati alle immagini con movimenti fluidi. La fisicità dei personaggi è meno comunicativa dei cartoon slapstick, ma è proprio essendo più contenuta che racconta di più.!

Tanti strati, uno sopra l’altro che funzionano tutti senza che nessun piano di lettura o di visione oscuri l’altro. Un’idea nata dall’incrocio di tante cose: opera letteraria, storici personaggi animati, musicassetta; più lungo di un cortometraggio, ma meno esteso di un film. Ovvero un compromesso continuo con tutto, che normalmente renderebbe impossibile uscirne con un buon risultato. Invece Burny Mattinson, per fortuna o per ingegno, è riuscito a realizzare un vero e proprio miracolo di Natale che non tramonterà mai. 

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