Qualche giorno fa Anthony Michael Hall, uno degli interpreti di Breakfast Club, ha rivelato alla stampa che il cosiddetto Brat Pack altro non è che un’invenzione mediatica. Il gruppo di giovani attori, amici e sodali che formavano un circolo esclusivo di talenti, era in realtà una costruzione della stampa e non un “club” effettivo. Il termine servì al mondo dello spettacolo per semplificare e riassumere una piccola rivoluzione in atto. Le nuove generazioni di attori che intercettavano i gusti e parlavano al pubblico più giovane, incarnando nuovi stili di racconto, furono inseriti a forza in questa definizione senza che ci fosse mai una corrispondenza con la realtà.

A dirla tutta, non era così difficile immaginarlo. Se si risale alle origini del termine è evidente quanto tutto sia nato come un abile gioco retorico. Una semplificazione da titolisti che si rimbalza tra un passato nostalgico e un nuovo modo appariscente per raccontare il cinema giovanile degli anni ’80.

Una breve storia del Brat Pack.

Nel 1985 Breakfast Club di John Hughes rivoluzionava le commedie giovanili. Prendeva le mosse da un gruppo di “cinque stereotipi” sotto forma di ragazzi e ragazze delle scuole superiori. In poco più di un’ora e mezza il regista usava il velo di pregiudizio e lo strappava rivelando un’interiorità stratificata, rendendoli persone a tutto tondo. Una rivoluzione.

Eppure in quel momento, mentre John Hughes distruggeva simbolicamente ogni cliché, i media ne andavano a creare uno ancora più grande: il Brat Pack.

Fu un articolo del New York magazine a coniare il termine basandosi su un precedente: il Rat Pack. Tra i molti membri di questo gruppo nato tra la fine degli anni ’50 e i ‘60 vi erano nomi illustri. Ne elenchiamo qualcuno: Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Peter Lawford, Joey Bishop, Humphrey Bogart e Spencer Tracy. 

La leggenda narra che fu Lauren Bacall a chiamarli così, “la banda dei topi”, dopo averli osservati in una notte brava di festa e scommesse al Desert Inn di Las Vegas. La definizione scherzosa piacque, tanto che venne formalizzata dagli stessi membri qualche tempo dopo. I confini del gruppo sono tutt’altro che precisi, ma vanno a definire un gruppo di amici, di artisti, e uomini (e donne) di spettacolo che collaboravano e si supportavano a vicenda.

Era un periodo in cui Hollywood faceva particolare affidamento alle sinergie delle star e ai “pacchetti” di talenti. Lavoravano insieme nei film, presenziavano ai rispettivi show e si ritrovavano regolarmente per fare festa e riempire le pagine di chiacchiericcio delle riviste. Tifavano l’uno per l’altro e si promuovevano a vicenda (non che ne avessero bisogno, ma aiutava a consolidare lo status di star). 

Con il Brat Pack la situazione era diversa e il cinema, lontano dalla sua epoca d’oro, stava mutando forme di fruizione tentando un ricambio generazionale. La nuova onda di talenti degli anni ’80 provenivano tutti, più o meno, dallo stesso mondo del cinema giovanile.

Alcuni erano considerati promesse del cinema grazie alle loro doti, altri attori e attrici più abili a guadagnarsi fama e visibilità per il loro fascino. Era questo un periodo in cui le storie giovanili, i film rivolti a un nuovo pubblico di moviegoers erano scritti e diretti da autori provenienti dalla stessa “scuola”. John Hughes fu il capofila, seguito da Harold Ramis e Howard Deutch e pochi altri. Il più serioso St. Elmo’s Fire di Joel Schumacher fu uno dei film cardine, insieme a Breakfast Club, Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare e Bella in rosa. Queste sono opere che unirono il “club”, facendo interagire le star di film in film. Furono così efficaci da suggerire l’idea che, come i rispettivi personaggi erano amici\rivali, così anche gli interpreti mantenevano lo stesso rapporto fuori dal set.

Alcuni nomi del Brat Pack? Emilio Estevez, Anthony Michael Hall, Rob Lowe, Andrew McCarthy, Demi Moore, Judd Nelson, Molly Ringwald e Ally Sheedy. Ma anche, secondo una lettura più ampia dei membri, Michael J. Fox, John Cusack, Sean Penn, Nicolas Cage, Corey Feldman e molti altri.

 

Breakfast club Anthony Michael Hall

 

L’articolo che lanciò il Brat Pack.

Fu il giornalista David Blum a inventare il termine. Lo scrive in un lungo articolo in cui racconta della notte in cui gli attori sancirono il loro patto. Ne scrive come se fosse stato a un tavolo di distanza, mentre loro bevevano e facevano festa. Descrive i rifiuti delle belle ammiratrici e le rigide regole interne che si sono dati. Non far floppare i film era una di queste. Un peccato inaccettabile per quesi giovani di successo. Emilio Estevez si era auto imposto come capo branco, eletto spontaneamente a leader. Non per la sua forza, ma perché era amico di tutti. 

Ogni membro che presta giuramento al tavolo ha una sua caratteristica distintiva. Sono raccontate nel pezzo, che assume via via una prosa sempre più ricamata e fantasiosa. Lob Lowe è la faccia più bella del gruppo, dice, ma il più caldo di tutti (sia in senso erotico che di potenzialità) è Tom Cruise. L’attore arrivava dal successo di Risky Business che gli ha permesso di contrattare cifre da record come costo di ingaggio per la sua partecipazione ad un film. Sean Penn è il più talentuoso tra tutti, mentre i due Matthew (Broderick e Modine) sono alle soglie di ingresso nel gruppo, ma non ancora dentro. 

Il passaggio più significativo resta però il seguente, che spiega bene come si è sentito il bisogno di trovare un nome e una logica a queste nuove personalità emergenti.

Ciò che distingue questi giovani attori dalle generazioni passate è che la maggior parte di loro ha saltato un gradino verso il successo che era richiesto alla generazione di Marlon Brando, James Dean, Robert De Niro e Al Pacino: anni di studio per attori. I giovani attori erano soliti investire anni al cospetto di insegnanti rispettabili come Lee Strasberg e Stella Adler prima di avventurarsi sul palcoscenico, da soli nei film. Oggi questo passaggio non è considerato necessario.

Con una certa nota di scetticismo, che caratterizza spesso le cronache dei passaggi di testimone, si fa notare che nessuno di loro si è laureato. Molti sono passati direttamente dalle scuole superiori al mondo della recitazione. Altri, come Estevez, hanno anche ambizioni di autori.

Come fatto notare da Anthony Michael Hall l’articolo non teneva conto di un fattore molto importante: la differenza di età tra di loro. Sebbene anagraficamente separati da pochi anni, nella giovinezza anche un piccolo lasso di tempo può segnare differenze enormi. Hall era alle superiori, Judd Nelson e Emilio Estevez erano ventenni con una carriera già avviata. Due mondi incompatibili che tendenzialmente si ignoravano.

Nonostante si incontrassero spesso sui set, con i registi che cercavano di ricreare certe dinamiche affettive sullo schermo, il Brat Pack non è mai stato un gruppo vero e proprio. Non come il Rat Pack, che invece si frequentava e cresceva grazie a un continuo intessersi di relazioni e rapporti lavorativi. Loro erano più un’etichetta. Un modo di semplificare e conoscere un nuovo stile prima che questo fosse codificato. E per creare un racconto, una mitologia mediatica che ha effettivamente accresciuto di molto la fama dei singoli. 

Resta solo un mistero, per così dire, che viene solo accennato nell’articolo di David Blum. Ovvero il ruolo di Harry Dean Stanton rispetto al gruppo. L’attore aveva 58 anni all’epoca, ma viene citato come una sorta di padre spirituale del Brat Pack. Una figura stimata in particolare da Estevez che ha recitato con lui in Repo Man – il recuperatore. A differenza loro, Stanton fu un volto noto per anni, diventando celebre solo in età avanzata.

In un virgolettato che non è dato sapere se sia inventato, esagerato o autentico, l’attore dice delle giovani star: “non mi comporto come se fossi loro padre, mi comporto come loro amico”.

È questo l’unico legame del Brat Pack con la vecchia generazione, in un racconto mediatico che ha avuto l’indubbio pregio di tracciare dei confini e definire degli insiemi. Definizioni già pronte da usare per raccontare la storia del cinema.

Fonte: NYmag

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