Guilty pleasure per eccellenza, Come d’incanto lavora su un pubblico tutto suo: quello troppo vecchio per le fiabe, ma sufficientemente adulto per cogliere i molti riferimenti che vi sono all’interno. Caricato dalla riflessione “meta” che pochi anni prima aveva portato Shrek alla ribalta, il film di Kevin Lima è tutt’altro che una parodia, ma sull’umorismo autoreferenziale basa la sua unicità. Strizza l’occhio e prende per mano riportandoci indietro nel tempo nostalgico dell’infanzia con il cinismo dell’età adulta.

Una giovane principessa nel regno “animato” dell’Andalasia incontra un principe durante un’avventura. È pronta per sposarlo e vivere per sempre felice e contenta con lui, ma una regina cattiva la spedisce con l’inganno in un’altra dimensione. Più nello specifico a New York, dove le storie a lieto fine non sono certo all’ordine del giorno.

Nonostante Come d’incanto voglia passare il dolce pensiero che le fiabe siano possibili anche nella vita reale, a patto di saperle cogliere, è in realtà un film che inaugura un periodo di disillusione. Disincanto, sarebbe meglio dire. Per gran parte del primo decennio del duemila alla crisi delle tradizionali principesse, e delle tipiche fiabe dai buoni sentimenti, la Disney (ma non solo) hanno cercato una risposta… sviando la domanda. Non si sono chiesti che cosa le rendesse poco affascinanti, ma hanno attribuito la responsabilità al pubblico. 

Come a pensare che chi paga il biglietto non è più quello di una volta. Ora conosce i meccanismi narrativi, perciò non lo si può più ingannare (ma davvero è così?). Passa più tempo di fronte allo schermo, può bloccare il file video, estrarre un’immagine e fare le dovute comparazioni. Quindi non ha più senso trasportarlo in una storia, occorre invece sottolineare che sta assistendo a un prodotto di ingegno. Di quelli che arrivano in un tempo e in uno spazio ben precisi. E quindi si può riderne, senza temere di sminuire, e si può usare un immaginario già consolidato per crearne uno completamente rinnovato. La prova di questo è proprio nel tono di molti film di quel periodo. In come cercano di compiacere, arrendendosi alla missione impossibile di piacere veramente. Come d’incanto è una felice eccezione dal perfetto tempismo e dal giusto equilibrio.

Per inciso, lo stesso interrogativo se lo sono posti qualche tempo dopo, arrivando oggi a una conclusione completamente diversa e sotto gli occhi di tutti: per rinnovare bisogna cambiare i soggetti, trovare nuovi volti oltre alla bianca, magra, e posata principessa tradizionale. 

 

Come d'Incanto James Marsden

 

La Giselle di Amy Adams è sciocca e maldestra come lo è un pesce fuor d’acqua. Lei è la prima vittima della visione cinica del mondo che permea Come d’incanto. A dire il vero, anche se questa si modera molto nel finale da fiaba -appunto- resta piuttosto presente. Nancy, interpretata da una Idina Menzel “A.F” (Ante Frozen), deve scappare da questo mondo per trovare il suo lieto fine senza il rimpianto del cuore infranto che le sarebbe rimasto a New York.

Come d’incanto è un film in cui gli uomini restano dove sono e le donne si trasferiscono nella dimensione in cui sono amate, ma è anche un riuscito tentativo di ribaltare gli schemi di rappresentazione femminile. Giselle non perde la scarpa, se la toglie e imbraccia la spada andando a salvare il suo principe.

Perché in fin dei conti Kevin Lima ha tirato fuori dal cappello un film così intelligente nelle sue basse ambizioni da avere fatto scuola. 

C’è un piccolo dettaglio che fa ben capire la cura messa nel far duettare la dimensione animata con quella in live action. È la porta tra i due mondi. Ovvero un tombino a Times Square. Le immagini dell’attraversamento dicono moltissimo del resto del film.

Giselle si avvicina timorosa mentre l’inquadratura si ribalta. Una luce filtra dai buchi e la illumina fino a inondarla completamente di “realtà”. Anticipa così quello che le succederà nel suo arco narrativo. Il principe Edward di James Marsden esce dalla stessa “porta” trionfante, carico di energie per partire all’avventura. Sarà così per tutto il tempo, risultando però come il meno riuscito, limitandosi a fare la spalla comica di se stesso. Timothy Spall, il volto fantasy per eccellenza, fa uscire il suo Nathaniel nella giusta maniera rocambolesca che gli si addice. La regina cattiva è invece sicura e minacciosa.

È un modo di prendere sul serio la caricatura che va a fare. Un elemento scenico che aiuta a trasporre le movenze fantasy affiancandola agli attori in carne ed ossa. Una transizione rapida, ma sufficientemente graduale da venire accettata. Azzeccato il momento più delicato, il resto fila liscio. Come d’incanto non ingigantisce parti a caso, ma tutte quelle giuste. Per questo è così efficace nel fare entrambe le cose: creare empatia e distruggerla. 

Il divertimento maggiore all’uscita del film fu di trovare tutti i riferimenti ai classici Disney. Oggi c’è una pagina wikipedia apposta che rovina il gioco. Ora si può ammirare il coraggio che ha avuto di inserire il cringe, l’imbarazzo, nelle fiabe. Robert (Patrick Dempsey) che cerca di psicanalizzare Giselle è una trovata brillante. Non sfruttare la tendenza della principessa a distruggere le tende per farsi dei vestiti per far saltare i nervi al personaggio è invece un peccato. 

Come lo è il fatto che siano tutti troppo posati, troppo poco cinici anche in partenza, limando un po’ la forza del contrasto con la filosofia delle fiabe. Certo, la sensibilità oggi è molto cambiata, e il seguito già in programmazione dovrà fare di più che limitarsi a riproporre la stessa idea per essere amato. Già il fatto che si intitolerà Disenchanted non fa ben presagire. Oggi, con una pandemia in atto e con il ritorno delle storie viste tra le quattro mura domestiche, non siamo più nel tempo del disincanto come lo eravamo un tempo.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, è quando la realtà si fa più dura che perdersi nell’illusione è più bello.  

Come d’incanto è disponibile su Disney+.

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