Abbiamo realizzato nei giorni scorsi un’intervista ai fratelli D’Innocenzo. Tra le molte domande abbiamo anche affrontato la questione del loro rapporto con i social, perché non somiglia alla maniera in cui altri cineasti italiani li usano, per molti aspetti diversi, sia positivi che negativi. Dopo l’intervista (ma prima della sua pubblicazione su Badtaste), la questione del rapporto con i social di Fabio D’Innocenzo è scoppiata pubblicamente e la cosa ha reso quel che ci siamo detti subito vecchio e sorpassato dall’attualità. Nella bolla social di appassionati di cinema e giornalisti sono stati postati da diverse persone screenshot, raccolti negli anni, di risposte dure, con insulti anche pesanti, di Fabio D’Innocenzo a semplici hater ma anche a persone che erano andate a commentare con critiche, screzi e prese in giro i suoi o altri post. Alla fine Fabio ha scritto anche un lungo post su Instagram in cui si scusa per l’atteggiamento tenuto.

Questo articolo arriva dopo che è successo tutto, a bocce ferme, non per discutere degli screzi e delle risposte a insulti di Fabio D’Innocenzo, perché questo appartiene al reame del gossip (e ovviamente la posizione di Badtaste è di forte opposizione a questo tipo di contrapposizioni e agli insulti, siano esse online o offline), ma per fare una considerazione di cinema più ampia, che prende le mosse dall’impatto che ha avuto la questione, da quello che si è detto e dalle altre riflessioni che ne sono uscite. Specialmente quelle che hanno messo in connessione le risposte e i tipi di insulti di Fabio D’Innocenzo e i film dei due fratelli. Tutto per chiedersi cosa ci aspettiamo dai cineasti e come guardiamo i loro film in un’epoca in cui, per la prima volta, sappiamo molto di loro e possiamo interagire con loro.

Vale la pena ripeterlo una seconda volta: questo articolo non vuole minimizzare l’accaduto in nessuna maniera, vuole chiedersi perché ne siamo stupiti e cosa ci aspettiamo.

Cosa accettiamo dai musicisti, dai romanzieri e cosa dai registi

L’impressione infatti è che, per ragioni che è complicato comprendere, lungo tutto il Novecento e poi molto negli anni 2000, l’immagine di cosa debba essere un cineasta si sia evoluta verso l’intellettuale e il buon professore, un docente o una figura politica, qualcuno da cui pretendiamo un certo comportamento e un buon esempio. Dai musicisti invece (per fare un altro esempio di persone esposte e coinvolte nell’industria culturale e dell’intrattenimento) siamo disposti ad accettare che non siano di buon esempio, siamo disposti ad accettare che siano discutibili, e anzi proprio il loro essere discutibili è spesso parte dell’interpretare bene il ruolo di ribelli che mettono in questione lo status quo. Da un cineasta invece no. Dai rapper e trapper arrivati dalla borgata e da vite difficili addirittura accettiamo quello che non accettiamo da nessun altro, lo swag, l’esibizione del successo e dei soldi come forma di affermazione personale. Arriviamo a tollerare atteggiamenti non edificanti anche dagli scrittori (che solitamente hanno un aplomb più posato) perché esiste la figura del romanziere beat, duro nella scrittura e nei modi. Non dai cineasti. Se accade, parte l’indignazione perché a dire quelle cose è stato un regista. Quello di Fabio D’Innocenzo è solo l’ultimo caso.

Quand’è che abbiamo cominciato a pretendere che quel tipo di figure fossero esemplari? Quand’è che essere per bene è diventato un valore per un cineasta? Quand’è che abbiamo cominciato a giudicare le loro azioni con lo stesso trasporto e interesse con cui parliamo dei loro film? E ancora di più, quand’è che abbiamo cominciato a far discendere quel che pensiamo dei loro film da quel che pensiamo di loro? Perché storicamente non è mai stato così.

Il legame tra cosa i registi sono nella loro vita e i film che girano

Il fatto che Francis Ford Coppola abbia girato un film ficcandoci dentro i suoi parenti, anche in ruoli importanti e parti cruciali, o che poi nella sua vita abbia fatto di tutto per spingere dentro l’industria del cinema la propria famiglia, diventando il capo di un clan inserito a vari livelli dentro Hollywood rende meno sincero quel che dice Il padrino? La scoperta che Luchino Visconti fosse di famiglia nobile (proprietari della società farmaceutica più importante d’Italia) rende meno sincero Rocco e i suoi fratelli o La terra trema? Il fatto che Vittorio De Sica fosse una persona ricca, dallo stile di vita alto borghese (fino a che i soldi che non perdeva al gioco lo permettevano) rende meno sinceri i suoi film su persone derelitte?
Abbiamo davvero un’opinione così scarsa del film, come opera, da pensare che non sia in grado di parlare da sé, che non sia in grado di interloquire con lo spettatore senza l’ombra delle “intenzioni dell’autore”?

Ma ancora quando Toni Servillo interpreta personaggi cafoni e scostanti, criticandone l’atteggiamento grossolano e scurrile, lo riteniamo meno onesto quando scopriamo che manda a fanculo e dà della cretina a una giornalista? Le sue interpretazioni ci sembrano ipocrite perché abbiamo scoperto che è una persona a cui può capitare di insultare volgarmente qualcun altro? L’umorismo idiota di Lars Von Trier e il fatto che sia così poco accorto da non comprendere quali battute è il caso di fare e quali no rende i suoi film meno acuti? I tweet e le polemiche più volte sollevate da Gabriele Muccino online rivedono quello che ognuno pensa dei suoi film? I rapporti turbolenti con suo fratello cambiano quello che i suoi film (sempre pieni di famiglie) ci dicono?

Non è chiaro dove nasca l’illusione che questi atteggiamenti non appartengano ai cineasti o agli attori o a chi fa cinema in generale. I cineasti non sono mai state figure immacolate ma anzi persone in certi casi apertamente terribili, nondimeno amiamo tutti i loro film. Michael Curtiz concupiva attrici giovani di continuo, lo sapevano tutti e ci ridevano sopra (!), in Don’t Look Up direbbero “Appartiene ad un’altra generazione!” con tono comprensivo.

Qualsiasi antipatia è legittima, come lo è qualsiasi scontro verbale, in privato o in pubblico online o nella vita reale, semmai scatenare un polverone a seguito di queste scoperte lo è molto meno. Non è cancel culture (non scherziamo!) ma non è nemmeno il suo opposto, è comunque una forma di collegamento diretto tra quello che pensiamo di una persona e quello che facciamo delle sue opere. E soprattutto una forma fastidiosa di doppio standard. Che metro si applica? Quando i registi sono pessimi con gli altri va bene e quando insultano qualcuno di noi (“noi” inteso come pubblico) invece è tutto intollerabile e rivede l’onestà con cui fanno film? Cioè le azioni che avvengono al di fuori dei film influenzano il senso stesso dell’opera? Come a dire: “Mi ero sbagliato nel vederlo, adesso che so questa cosa è evidente che non poteva avere il senso che pensavo avesse”?

Gli scontri tra critici e autori

E con gli esempi non c’è bisogno di arrivare a chi molesta, ci possiamo fermare anche prima. Basta anche molto meno, anche tornando a casa nostra nel presente è facile capire che c’è poco da indignarsi. Chiunque abbia fatto il critico a un livello anche solo medio o medio-basso (quanto a diffusione dei propri scritti) è stato contattato e insultato da un regista infuriato per una stroncatura. Chiunque abbia stroncato è stato insultato anche da nomi che oggi fanno grandi film importanti (chi scrive vanta anche minacce telefoniche e persecuzione da un regista che per fortuna non fa più quel mestiere, a quanto pare). Ci sono cineasti italiani di notorietà mondiale che fanno tutta la pressione che possono sui quotidiani per far perdere il lavoro ai critici che stroncano i loro film. Parliamo di far perdere il lavoro a qualcun altro, levargli mezzi di sostentamento. E i film di queste persone terribili in molti casi sono fantastici. Meravigliosi.

Paolo Mereghetti ha più volte raccontato di essere stato minacciato pubblicamente di percosse negli anni ’80 da cineasti italiani molto noti. E questi esempi non stanno qui per dire che allora va tutto bene: non va bene e ognuno fa bene a rispondere o denunciare se è il caso. Ma sono esempi che servono a dire che i cineasti non sono mai state persone esemplari (e mai lo saranno) e che se dobbiamo guardare i film di quelli che si comportano bene la scelta non è granchè.

Chi si indigna spesso non ha il tipo di esperienza, il vissuto o il pregresso per sapere che il rapporto tra chi scrive e chi fa film non è mai stato sereno e pacato, e i registi non sono mai stati la parte quieta ma semmai quella irrequieta (il critico al contrario non insulta mai la persona ma parla male dell’opera, altrimenti si configura il reato di diffamazione a mezzo stampa). E quindi si stupisce. Se ne stupisce il grande pubblico quando salta fuori un audio di Toni Servillo (un nome e volto famosissimo) e se ne stupisce il piccolo pubblico, quello più di nicchia, quando saltano fuori schermate di Fabio D’Innocenzo. Entrambi i pubblici, grande e piccolo, però finiscono a fare il medesimo ragionamento naive, e cioè che i film abbiano qualcosa a che fare con quello che chi li realizza o ci recita è nella propria vita. Invece hanno a che fare solo con quello che noi, che li guardiamo, siamo. Perché è con noi che parlano.

Poi certo, esistono anche molti cineasti che invece sono quieti, posati e che potrebbero essere portati ad esempio. È noto che una delle persone migliori dell’industria del cinema italiano sia Neri Parenti, un uomo affabile, gentile, sempre ironico, spiritoso e di grandissima classe. Giudichiamo i suoi film in base a questo? Ci paiono migliori o più onesti perché lui è una bravissima persona?

Alla fine che cosa chiediamo ai cineasti: di essere brave persone, mariti amorevoli, padri irreprensibili e di lasciare stare il pubblico che li insulta o di fare bei film?

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