A tutti gli effetti il barone Celfalù, detto Fefè, è un cattivo, uno che, invaghito di una ragazza minorenne (ma di cui aspetta il compimento dei 18 anni), decide di uccidere la moglie e così poterla sposare. È un assassino a sangue freddo che pianifica di farla franca fingendo di essere un assassino a sangue caldo. E invece è l’eroe, l’antieroe tipico di un film italiano degli anni ’60 (il film usciva 60 anni esatti fa), che mentre pensa ed esegue qualcosa di riprovevole in realtà pettina il desiderio e la morale nascosta del suo pubblico, la espone e la massaggia ma formalmente è da condannare.

Eppure la grandezza di Divorzio all’italiana, ancora visto oggi, sta soprattutto nel fatto che il barone è una gigantesca vittima della società. Le convenzioni lo tengono senza lavoro, le circostanze della sua vita (bloccato in casa con i genitori) lo rendono un bambino nonostante abbia 40 anni e i debiti accumulati lo confinano in un’ala di un grande palazzo. Che poi l’assenza di una legge sul divorzio lo costringa in un matrimonio che non desidera è solo l’ultimo di una lunga catena di vincoli.

Il cinema italiano aveva già invitato il pubblico a prendere parte ad un piano per un omicidio e a riderne addirittura. Era accaduto due anni prima in Il vedovo in cui l’alfiere dell’antieroismo nostrano, Sordi, al comando del regista il cui tocco poteva far digerire anche le idee più sovversive al pubblico più bigotto, Dino Risi (era lui in fondo che in Il sorpasso, con grande fluidità ad un certo punto faceva sì che un padre corteggiasse la figlia che non aveva riconosciuto, di fatto mostrandosi sessualmente attratto da lei), cercava di uccidere la moglie del nord che lo disprezzava (Franca Valeri). Ma un conto è Sordi e un conto è Mastroianni. Sordi ha una storia di irriverenza e cattiveria, aveva alle spalle un decennio di successi in cui era sempre più meschino e deprecabile. Mastroianni veniva da La dolce vita (ragion per cui Germi inizialmente non lo voleva, perché lo riteneva un fighetto) e soprattutto in Il vedovo l’uomo che pianifica di uccidere la moglie (cogliendo un’occasione che il caso gli aveva fatto vivere) alla fine muore, punito dalla sua stessa cattiveria. Il barone Cefalù invece concretizza perfettamente un piano concepito lucidamente.

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Per capire quanto siamo lontani da tutto quel che girava all’epoca si pensi che 3 anni prima veniva pubblicato Il gattopardo e due anni dopo sarebbe diventato film. Un’altra storia siciliana non troppo diversa, in cui un nobile deve trattenersi di fronte al desiderio che prova per la giovane fidanzata del figlio. Quella era la morale vigente di fronte alla quale la modernità del barone Cefalù sembra venire dal decennio successivo, ribelle nei confronti del matrimonio e della tradizione. È un personaggio animato da desiderio di libertà fortissimo che non è difficile comprendere, visto come vive, immerso in una società che non ne concede né a lui, né a Rosalia né ad Angela. Nessuno è libero di fare niente e va a finire che qualcuno per questo dovrà morire.

Una nota della Criterion (che edita il film in America) sostiene che una storia simile non avrebbe mai passato il production code di Hollywood, eppure ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura.

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Non stupisce nessuno che dopo l’uscita gli stessi giornali locali che avevano osannato il film del genio Germi che veniva a girare proprio nei loro paesi, l’abbiano massacrato urlando al vilipendio della cultura siciliana di quest’uomo del nord che non aveva capito nulla di quel che aveva raccontato. In realtà quell’antieroe arriva 7 anni prima del ‘68 in un clima completamente diverso a lottare non per gli altri ma solo per sé, abbandonato in una versione quasi distopica dell’Italia, un posto in cui tutti i problemi della nazione sono enfatizzati. Germi aveva capito che in un posto del genere il deviante, la persona che si ribella a tutto e per convenienza uccide è quasi un eroe.

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In un momento di clamoroso gioco di specchi, durante il film, Mastroianni corre in cerca di prove per il suo omicidio nei vicoli vuoti della città, perché tutti sono al cinema a vedere il film scandalo La dolce vita, in cui Mastroianni stesso, insegue Anita Ekberg. Un pubblico assetato di trasgressione e scandalo guarda un Mastroianni (quello fighetto che Germi pensava inadatto al suo film) mentre un altro Mastroianni trafelato lotta contro di loro per la sua libertà.

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