Grand Budapest Hotel doveva essere il film della consacrazione di Wes Anderson, e lo è stato. Ma ha anche tracciato una linea netta tra gli ammiratori del suo stile e i detrattori. Ha lanciato il regista oltre la sfera cinefila e agli occhi del pubblico generico, anche grazie a un cast nutritissimo e alle svariate nomination all’Oscar. Ma è anche con quest’opera che il regista fa un’importante dichiarazione d’autore: il suo stile è questo, la sua visione è questa. Non c’è una via di mezzo, ma una sempre più ossessiva ricerca dell’estremo. Una coerenza che attraversa l’intera filmografia e che non ha alcuna intenzione di lasciare.

La sua regia raggiunge dei livelli altissimi di compiacimento estetico, di perfezione nel dettaglio, sacrificando però la forza emotiva della storia. Il cast è composto da sole star, ma Anderson si appoggia sull’allora sconosciuto Tony Revolori, che interpreta il lobby boy Zero, per provare a ispirare quel minimo necessario di identificazione per lo spettator...