Halloween Kills, uscito in questi giorni in America e anche in Italia, è un film che qualche anno fa non sarebbe potuto esistere. Almeno non in questa forma, o meglio almeno non con alle spalle la produzione della Blumhouse, la casa di produzione fondata da Jason Blum e che è diventata rapidamente un caso non tanto, o non solo, per la qualità delle opere prodotte ma per lo straordinario rapporto che c’è tra i soldi spesi per realizzarle e quelli incassati. In altre parole, Blumhouse è diventata famosa per i suoi film a basso budget, un modello produttivo che lo stesso Blum ha spiegato più volte in passato e che prevede alcune regole ferree, tra cui “mai spendere più di 5 milioni di dollari per un film” e “mai superare il budget iniziale, per nessun motivo al mondo”. Con il tempo e il successo, però, e le collaborazioni con realtà più grosse e dominanti, Blumhouse ha occasionalmente abbandonato la strada del low budget a tutti i costi, e aperto a produzioni più (relativamente) costose, di quelle che rientrano nel reame del medio budget – esattamente il genere di film che sta scomparendo a causa della polarizzazione tra blockbuster centimilionari e indie a bassissimo costo, ma questo è un altro discorso che rende Blumhouse anche una sorta di ultimo bastione di resistenza contro lo zeitgeist.

Halloween Kills, come il suo predecessore Halloween, quello di David Gordon Green datato 2018, è una di queste eccezioni: è costato 20 milioni di dollari, quattro volte il teorico “budget massimo” fissato da Blum qualche anno fa. È normale: stiamo parlando di un franchise gigantesco, molto più di quanto sia la stessa Blumhouse, e di nomi come quello di Jamie Lee Curtis, che hanno esigenze di cachet superiori a quelle dell’attrice Blumhouse media (comunque aggirabili con accordi di percentuali sugli incassi). D’altra parte, se Halloween Kills dovesse ripetere o migliorare l’impresa al botteghino del film precedente potrebbe finire per superare agilmente i 150 milioni, e potrebbe con ogni probabilità diventare il maggior incasso della storia della Blumhouse, o alla peggio il secondo.

 

Blumhouse Insidious

 

Tutto questo parlare di soldi ci ha fatto venire in mente una cosa: tutti questi film sono poi effettivamente belli? Ancora meglio: sono i più belli tra quelli prodotti da Blumhouse? C’è una correlazione diretta tra gli incassi di un film Blumhouse, i suoi piccoli record finanziari, e la sua qualità? Prima di rispondere, segnaliamo che un’altra domanda che ci siamo fatti è: i film più costosi della Blumhouse sono anche i migliori? A questa, però, è più facile rispondere: il massimo budget mai allocato per un suo film da Jason Blum sono i 48 milioni spesi per L’acchiappadenti, per cui no. Con gli incassi la situazione è più complessa; abbiamo quindi provato a prendere i dieci film più redditizi della storia della Blumhouse e a chiederci se siano davvero il massimo, oppure se non ci sia qualcosa di meglio nascosto nel catalogo (o anche là fuori, dove non esistono limiti di budget). Per i dati abbiamo fatto riferimento a The Numbers, e usato gli incassi internazionali; è interessante notare che se avessimo usato quelli USA (che trovate sempre nella stessa tabella) la classifica non sarebbe cambiata granché, e l’unica grossa differenza sarebbe stato l’ingresso in top ten di un paio di capitoli di The Purge.

 

Paranormal Activity 4

 

  1. Paranormal Activity 4

Decima posizione e già ci sarebbe da scrivere un libro: la serie di Paranormal Activity, i cui primi quattro capitoli sono tutti presenti in questa classifica il che renderà complicato scrivere cose nuove e interessanti ogni singola volta, è l’epitome del prodotto Blumhouse, un franchise che, sommando tutti e sette i film, ha incassato circa 30 volte quello che è costata – e tenete conto che gli ultimi tre non sono andati particolarmente bene. Il suo successo è insieme inspiegabile e ovvio: sono film semplicissimi, quasi mono-location, sicuramente monocromatici, che si basano però su un’idea talmente spaventosa di per sé che come terapia d’urto al cinema funzionano sempre. C’è di meglio? In un certo senso non c’è nulla di simile o quasi, dentro o fuori il catalogo Blumhouse.

 

  1. Oltre i confini del male – Insidious 2

Un’altra delle grandi saghe che hanno caratterizzato la Blumhouse in questi anni, che non riesce purtroppo a piazzare in classifica il primo film (che è ahinoi anche il migliore) ma che si guadagna due posizioni consecutive in classifica con il secondo e il quarto – il terzo, per qualche curioso motivo, è andato peggio degli altri, e non si avvicina neanche alla top ten.

 

  1. Insidious: L’ultima chiave

Ed eccovi l’altro Insidious promesso poco fa. È il quarto, appunto, quello che probabilmente è stato ricevuto peggio dalla critica e meglio dal pubblico (che, va detto, a quel punto aveva investito tempo e denaro in tre film ed era difficile pensare che potesse disertare il quarto in massa). Su una cosa al tempo entrambe le fazioni concordarono: il franchise aveva dato, era tempo di andare oltre. Ecco perché un anno fa sono cominciati i lavori per un quarto sequel.

 

Paranormal Activity 2

 

  1. Paranormal Activity 2

La tripletta della morte: tre film che sono tutti più o meno lo stesso film, con qualche piccola variazione e nuovi modelli di iPhone con il passare degli anni. Cosa si può dire dei primi tre Paranormal Activity che non sia già stata detta dieci anni fa, e considerando che il franchise non ha lasciato veri eredi e anzi è stato testimone più o meno diretto della morte del found footage, ormai sostituito dai “film da destkop” in stile Unfriended?

 

  1. Paranormal Activity

Si può dire per esempio che il primo capitolo del franchise fu effettivamente un fulmine a ciel sereno, il genere di film che crea immediatamente due fazioni, una pronta a difenderlo fino alla morte in quanto esperimento geniale e di grande efficacia, un’altra decisa a dimostrare che non è possibile fare un bel film basandosi su un singolo gimmick se poi tutto il resto, a partire da fotografia e messa in scena, è a livello “telecamere scrause per la sicurezza privata”. Magari lo odiate, ma ricordatevi che è comunque un sentimento molto più forte e significativo dell’indifferenza.

 

  1. Paranormal Activity 3

OK, le idee sono finite, e Paranormal Activity 3 peraltro fa questa scelta creativa bizzarra di tornare al 1988 creando così un gigantesco handicap tecnologico alla solita formula. Una sfida interessante, ma non sufficiente a giustificare il perché Paranormal Activity 3 sia andato meglio del 2 e dell’1.

 

Glass

 

  1. Glass

Fine di Paranormal Activity, fine dei franchise? Nemmeno per sogno: anche alla Blumhouse la serializzazione è una delle armi segrete per conquistare il mondo. Il franchise di Glass, che comprende anche un altro film di questa classifica, è curioso, perché fino all’uscita del film non avevamo neanche davvero capito che si trattasse di un franchise, e che Split fosse collegato a Unbreakable. Poi è successo, e i risultati, per quanto criticabili, sono degni di nota: Glass è un’ottima conclusione per una delle trilogie meno trilogie della storia del cinema.

 

  1. Get Out

Get Out si gioca con l’altro film del franchise di Unbreakable che non è Glass la palma di miglior film mai prodotto da Blumhouse, e il fatto che abbia trionfato anche agli Oscar ne certifica in qualche modo la qualità. È la dimostrazione che il metodo Blumhouse funziona: costato meno di cinque milioni di dollari ne ha incassati 250 in tutto il mondo, e se stessimo guardando la top 10 USA lo troveremmo al primo posto e non al terzo. Il tutto prendendosi anche la soddisfazione di dare una bella scossa all’horror e di consegnarci uno dei migliori registi di genere in circolazione.

 

  1. Halloween

Del valore del film di David Gordon Green abbiamo già parlato qui. Della sua potenza commerciale invece all’inizio del pezzo: Halloween è, al contrario di Get Out, la dimostrazione che Blum sa come funzionare anche al di fuori del suo metodo. Poco importa che il film non sia un granché: il fatto che gli sia stato affidato, che abbia potuto scegliere lui a chi farlo girare, e che abbia potuto farlo andando oltre i suoi tradizionali limiti (ma sempre senza superare il budget iniziale), dimostra che Blumhouse sta crescendo anche in altre direzioni, non solo quella dell’indie spinto, e che nei prossimi anni possiamo aspettarci un’ulteriore esplosione.

 

Split

 

  1. Split

Il film che confermò le buone sensazioni date da The Visit (“Shyamalan è tornato! È rinsavito!”), che ci regalò un James McAvoy in un’inedita versione “Eddie Murphy in Il professore matto, però matto davvero” e fece conoscere Anya Taylor-Joy a chi ancora non l’aveva notata in The Witch. Bello, autoriale, ma anche vendibile e di grande intrattenimento, costato “solo” 9 milioni di dollari (sì, è anche lui #teamfuoribudget) e ancora oggi il massimo incasso mondiale per Blumhouse: cosa si può chiedere di più a un film, se l’hai prodotto tu?

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