Se veramente esiste una “formula Marvel” consolidata, quella usata da Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli ha una miscela con una sfumatura diversa, ma non certo originale. È più una “formula Black Panther”. Si contiene la salsa della storia, non si eccede in ramificazioni nella continuità, per rendere il prodotto finale perfettamente fruibile anche dai neofiti. Poi si cambia il sapore andando a rappresentare culture e persone poco viste al cinema. Lo si affida a un regista che ne sappia fare un film personale, lasciando aperto lo spiraglio per il divertimento più leggero. È un bilanciamento degli ingredienti che piace parecchio alla critica statunitense (basta vedere la percentuale di recensioni positive, sempre prendendo con le pinze il dato), e che ripaga al botteghino senza grosse difficoltà.

Proprio come il film di Ryan Coogler, anche Shang-Chi osa fino a un certo punto. Sicuramente non quanto Eternals, che appartiene a una categoria a parte, per coraggio e riuscita. Black Panther era tutt’altro che appassionante e rigoroso, ma riusciva sul finale a dire qualcosa di diverso. Un salvataggio in corner, grazie a una scena riuscita. Con lo sguardo al tramonto sul Wakanda, Killmonger metteva in discussione la voglia di T’Challa di far conoscere le meraviglie della sua terra al mondo. Siamo sicuri che aprire i confini agli sfruttatori (capitalisti) sia la soluzione per guidare nel futuro la nazione mai invasa? Non sta forse peccando di ingenuità il Re? È molto più forte in quel momento il gesto del nemico sconfitto, che preferisce la morte coerentemente con le sue idee. 

Gli ultimi istanti del villain cambiano anche il pensiero dell’eroe, le sue convinzioni politiche. Il suo discorso finale sarà quindi molto influenzato dal conflitto appena vissuto. Insomma: un film che decolla solo nelle ultime battute, dopo essersi trascinato stancamente.

Shang-Chi invece fa esattamente l’opposto: inizia con grande brio calcando tantissimo sull’aspetto visivo. Sfuma il suo protagonista nel rapporto con il padre Xu Wenwu. Poi, nel terzo atto, lascia perdere tutte queste cose e cerca di chiudere sbrigativamente. Butta via gran parte di quello che aveva costruito. Non segna il tiro ben piazzato dall’ ambiguità che un attore di spessore come Tony Leung ha imposto. 

Il terzo atto ci regala il film di Dragon Ball che non abbiamo mai avuto, ma nell’equilibrio totale è una scelta sbagliata. Il regista Destin Daniel Cretton, contrariamente a Coogler, spegne il film prima del dovuto. E succede nel momento preciso in cui si libera di Xu Wenwu, con una dipartita ingiusta e frettolosa. Simu Liu fatica a far risuonare quel momento nelle ossa. Non è questo il problema principale. L’errore grave è non avere capito di avere troncato di colpo l’intera linea di trama di colui che si è rivelato appassionante come il protagonista del film. Se non di più.

 

shang-chi trailer

 

In Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli c’è il tema dell’eredità, portata avanti dalla sorella Xu Xialing e interiorizzata dall’eroe che presta il nome al titolo. L’incontro tra il mondo della madre e del padre e ciò che ne è stato generato vive nei figli e quindi nelle nuove generazioni. In linea con quello che sta cercando di fare la Marvel per rinnovare il parco di supereroi continuando le linee di trama antiche (si veda Captain America). C’è coerenza dall’inizio alla fine e con la sua scomparsa.

Però l’inizio di Shang-Chi affidato a Xu Wenwu è talmente potente da far vivere tutto il resto come un tradimento. La battaglia è come una danza d’amore, un incontro tra due esistenze che si uniscono in armonia. Un incipit da Wuxiapian che richiama le atmosfere de La foresta dei pugnali volanti. La strada si apre, la natura fa spazio alla rivelazione del villaggio di Ta-Lo.

Il montaggio gioca molto sui due “regni”. Il villaggio contadino progredito, ma ancorato nelle tradizioni e San Francisco, una città in continuo fermento, moderna e densamente popolata. 

Wenwu si innamora di Jiang Li. Dopo la morte della donna resta ossessionato dalla sua voce che lo guida verso Ta-Lo. Scoprirà troppo tardi che la sua è un’illusione, un inganno del demone noto come il Divoratore di Anime. Pagherà con la vita l’essersi abbandonato al richiamo delle sirene. Ma dal małe che porta con sé, da tutto quel potere mal gestito e mai compreso appieno, nasce anche una compensazione. La parte più femminile della loro dualità, come uno yin e yang, prevale in Shang-Chi e in parte anche nella sorella. Quindi il bene, la luce.

Nel confronto finale con il padre l’eroe danza in armonia fino a guadagnarsi gli anelli. Non strappandoli, ma prendendoseli quasi di diritto, come se fossero loro ad avere scelto lui.

Proprio nel momento in cui Wenwu realizza che tutti i suoi propositi sono vani, si ravvede, salva il figlio dall’attacco del Divoratore di Anime e si arrende. Si lascia catturare e si fa assorbire la vita dal mostro. Nella metafora del demone, vero villain del film, questo è un passo indietro. Il nome del mostro non è casuale: è infatti una voce che lavora dentro, che corrompe e cambia le persone. Ma il padre di Shang-Chi non è così fino alla fine. Lui capisce, cambia, matura insieme al figlio tanto da accettarlo come erede degli anelli. E poi cede la sua anima appena ritrovata.

Se ne va così. Mangiato da quella voce a cui aveva ceduto per molto tempo, ma non fino all’ultimo istante. Per Shang-Chi la parola è fondamentale, ed è raccontata propri dalla forma del film. Il Marvel più sottotitolato di sempre, in cui l’onnipresente dualità si articola anche nell’aspetto linguistico, sapere ascoltare e capire i messaggi è un requisito fondamentale per la crescita dell’eroe.

Per questo se guardiamo il film nella sua interezza è palese che sia Tony Leung a prestare il volto a ciò che veramente Cretton voleva raccontare. L’incontro tra due culture, la convivenza delle stesse nella personalità delle seconde generazioni, così come il desiderio delle passate di ritrovarsi nuovamente in armonia. Insomma, di conciliare la dualità.

Non fare confrontare Wenwu con le conseguenze delle sue azioni è un gran peccato narrativo. Una soluzione sbrigativa che non convince e che indebolisce il film impedendogli di spiccare veramente il volo. Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli fa il suo dovere di origin story, purtroppo non si è accorto per tempo che il vero cuore del film batte da un’altra parte. L’ha tagliata senza rimpianto, ma sarà difficile far ricrescere un personaggio così ben scritto come quello interpretato da Tony Leung. Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli è disponibile su Disney+

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