Per vincere domani – The Karate Kid, per gli amici semplicemente “Karate Kid”, sarebbe dovuto essere un flop, o meglio, un film anonimo, di quelli che arrivano in sala, ci rimangono qualche giorno e spariscono nel metaforico sgabuzzino della storia del cinema. Un «piccolo film del quale non frega un c***o a nessuno», nelle parole del montatore Bud Smith, raccolte quattro anni fa da Sports Illustrated in una oral history che è esilarante per quanto dimostra come nessuna delle persone coinvolte nel film, con l’esclusione di John Avildsen, avesse davvero capito che cosa stesse succedendo su quel set. E cioè la nascita di un classico, successone al botteghino, accolto con entusiasmo dalla critica, e a distanza di quasi quarant’anni ancora abbastanza amato da aver dato vita non solo a un inevitabile remake – del quale per decenza non parleremo mai più – ma anche a una serie TV della quale è appena uscita la quarta stagione e che è già stata trionfalmente confermata per una quinta (almeno).

Sono molte le ragioni del successo duraturo di Per vincere domani – The Karate Kid, ma noi vogliamo cominciare da una in particolare: è una storia vera. O quantomeno ispirato a una storia vera, quella di Robert Mark Kamen, sceneggiatore, produttore, collaboratore fisso di Luc Besson e oggi anche produttore di vini. Kamen racconta che negli anni Sessanta, quando era ancora un adolescente, gli capitò di venire picchiato da una banda di bulli; decise di studiare le arti marziali per imparare a difendersi, e si ritrovò in un dojo gestito da un ex militare che predicava violenza e vendetta. Insoddisfatto, andò in cerca di un altro maestro, e scoprì così il Gōjū-ryū, uno stile di karate inventato nell’isola di Okinawa da un signore di nome Miyagi e insegnato, al giovane Kamen, da un tizio che non parlava inglese, ma che era stato allievo del succitato Miyagi.

 

Per vincere domani - The Karate Kid Ralph

 

Guardando Per vincere domani – The Karate Kid è impossibile non notare come la parabola di crescita, personale e anche atletica, di Danny LaRusso (in origine Weber, cambiato al volo nel momento in cui venne scelto Ralph Macchio come protagonista) sia chiaramente una storia molto personale – Macchio la definisce addirittura “troppo dolciastra” – nella quale l’autore ha riversato tutto sé stesso, le sue paure di diciassettenne, e soprattutto la scoperta di un nuovo mondo, di un nuovo modo di difendersi che non prevedesse di combattere il fuoco con il fuoco, ma in qualche modo di elevarsi, di dimostrarsi superiori a chi ci minaccia, interiormente prima che esteriormente.

C’è anche un altro modo per guardare alla storia dell’amicizia tra Danny e il maestro Miyagi – che altro non è se non la storia di un giovane ragazzo di origini italiane in cerca di sé stesso e di un senso, che incontra un uomo adulto con il quale stringe amicizia e che gli fa contemporaneamente da mentore e allenatore, e lo guida verso un successo sportivo che è anche esistenziale. E questo modo è: il regista di Karate Kid è John G. Avildsen, meglio noto come “il regista di Rocky”. Come dice lo stesso Kamen, «Stallone mi sfotte sempre, mi dice che gli ho copiato il film, e ha ragione!». Per vincere domani è la versione teen di Rocky, e Avildsen lo dirige con lo stesso rigore e lo stesso rispetto.

 

Macchio

 

Non importa che sia un film su un adolescente, la sua prima cotta e le canzoni delle Bananarama. Avildsen prende molto sul serio una storia altrimenti ricca di umorismo e di anni Ottanta, ed è difficile trovare una scena che non contenga qualcosa di memorabile, che sia un’inquadratura al tramonto che pare uscita dal Grande Libro di Tony Scott o un combattimento coreografato con la stessa forza e creatività usata per gli incontri di Rocky Balboa. Il rischio quando si ha per le mani una storia adolescenziale è di abbassare il tono e adeguarsi a quelle che sono le esigenze percepite di un pubblico più giovane; Avildsen se ne frega e gira un film adulto e autoriale, privo di quell’aria di bonaria superiorità che traspare spesso dai film per ragazzi girati da gente la cui adolescenza è passata da qualche decennio.

Nulla di tutto questo funzionerebbe se la gente che poi deve mettere in scena la storia non fosse all’altezza. E invece Per vincere domani – The Karate Kid è un film che, tra le altre cose, ha regalato a Noriyuki Morita detto Pat, Arnold di Happy Days, il comico che venne respinto dopo il primo provino per via del suo lavoro nella stand up, una nomination all’Oscar come Miglior attore non protagonista. Morita e Macchio sono una delle coppie più affiatate probabilmente dell’intera storia del cinema, e anche presi singolarmente sono eccezionali: Macchio è uno dei rari casi di adolescente anni Ottanta che non è “bravo per essere un adolescente” ma “bravo e basta”, e Morita è l’archetipo di tutti i sensei veri e figurati che Hollywood ci ha fatto conoscere negli ultimi quarant’anni.

 

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Detto tutto questo, quindi, è ancora più divertente leggere alcune delle dichiarazioni di chi era presente sul set, eppure ha cominciato a credere nel film solo dopo la sua uscita. Ron Thomas, che nel film è Bobby, dice «il mio manager mi disse “questo film non ha pubblico. Non andrà da nessuna parte”». Secondo Rob Garrison/Tommy, «un giorno eravamo sul set e stavamo ridendo tutti. John ci ha fermato e ci ha detto “voi non avete idea di quello che state facendo. Questo film diventerà un classico”, e noi tutti pensammo “sì, certo, come no”». Per Clifford Coleman, assistente alla regia, «la sceneggiatura era una merda». Eppure, alla faccia di tutto, Per vincere domani – The Karate Kid incassò un centinaio di milioni di dollari, diede vita a tre sequel, una serie animata, la già citata Cobra Kai, e ovviamente un paio di videogiochi e, tra qualche mese, persino un musical.

In altre parole, John G. Avildsen aveva capito tutto.

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