In occasione dell’uscita di Decision to Leave, al cinema dal 2 febbraio, ripercorriamo la filmografia di Park Chan-wook con alcuni approfondimenti

Il terzo capitolo della trilogia della vendetta di Park Chan-wook è il più impostato, quasi in maniera teatrale, da grande dramma antico e senza tempo. Ovviamente. Il primo film, Mr. Vendetta, adottava il linguaggio del realismo per raccontare la disperazione che può colpire chiunque, innescando delitti ad effetto domino. Con Old Boy espandeva il concetto legandolo al tempo: la vendetta spinge la vita, la può avvolgere anche per lunghi anni (15 per la precisione), e più si dilata più fa male. Un piatto che va servito freddo. Lady Vendetta ci mette di fronte a un rito in cui l’agnello sacrificale non è senza colpa. Al contrario si è macchiato del crimine peggiore: ha rapito, violentato e ucciso bambini. 

Ritualità e angeli in Lady Vendetta

Park Chan-wook riprende la vendetta femminile (e femminista?), ancora prima che il cinema lo usasse per pulirsi la coscienza per anni di sguardo maschile. Tarantino aveva studiato Lady Snowblood per il suo Kill Bill, e aveva ammirato Old Boy come il film che avrebbe voluto girare lui, ma anche Park Chan-wook appare più che mai interessato a parlare al mondo occidentale. Carica tutto al massimo in una messa in scena barocca e teatrale. Delinea una protagonista così stratificata, piena di strati psicologici, che non la conosceremo mai veramente in sole due ore. Servirebbe una terapia intera. Lee Geum-ja (Lee Young-ae) ha infatti tante facce quante ne ha la sua macchinazione. È un angelo della vendetta umanissimo, che piange in primo piano, e che resta eterea in secondo. Una donna-divinità-rivoluzionaria ancora irraggiungibile come scrittura. 

Si parte con titoli di testa che guardano a Saul Bass e ad Hitchcock, con una chiusura sull’occhio che promette candore e violenza. Non è facile stare dietro nella prima sezione del film all’intricata vicenda di Geum-ja. Accusata di avere rapito e ucciso un bambino, si è fatta tredici anni di carcere. Lì ha iniziato la sua vendetta, meditata evidentemente già da prima dell’arresto.

Cerca la buona condotta. Finge di convertirsi e di diventare fervente cristiana (primo di tanti simboli religiosi), dà una mano alle compagne di cella. La realtà è opposta. Più che una santa, tra le sbarre, si sta formando un demone assetato di sangue, e al posto di una compagna leale, lo scopriremo poi, c’è un’abile manipolatrice. Il suo trucco e la sua posizione defilata nelle inquadrature, o in piena luce, sono solo il primo dei tanti espedienti di suggestione. Ci sentiamo discepoli di una rappresentazione sacra.

Lady Vendetta

L’oscurità e la duplicità della vendetta

Se l’inizio è un labirinto, o un puzzle ad incastro, è con la seconda parte che Lady Vendetta entra sotto pelle. Una discesa nelle tenebre. 

Uscita dalla detenzione, Geum-ja si vendica del professor Baek. Quello che sappiamo è che lei è stata messa incinta da lui. Ha avuto una figlia poi data in adozione. Geum-ja si è presa la colpa per un delitto commesso da Baek: il rapimento e l’uccisione di un bambino. Eppure più il film discende nella sua oscurità, perdendo prima i colori e arrivando a una quasi totale oscurità, più la figura di Geum-ja appare sfocata. Come può avere avuto una figlia da Baek se lui è sterile? E qual è la sua parte e la sua vera colpa nell’assassinio, se continua a coltivare un rimorso che le impedisce di parlare come visto nella sequenza poco prima della fine?

Lady Vendetta è bellissimo per le sfumature che riempiono un dramma fatto invece di tagli netti. Il criminale è della peggiore specie, non c’è retroterra psicologico che lo assolva. Le sue azioni, riprese e mostrate successivamente ai genitori, indignano tutti: dentro e fuori dal film.

Ma allora perché ci si sente così sporchi alla fine? Probabilmente perché la violenza grafica è passabile, mentre quella psicologica non lascia filtrare luce. Perché nella sezione nera, il film si sofferma su un dilemma. L’assassino è catturato, i corpi dei bambini, molti, che ha ucciso sono stati ritrovati. Geum-ja convoca i genitori. Li mette di fronte a una possibilità: scegliere di consegnare l’uomo alla giustizia o fare di lui quello che vogliono. 

La scelta ricade sulla giustizia privata, ovviamente, ma è come viene messa in scena che conta. Lady Vendetta è come una sacerdotessa in un rito di sangue senza una catarsi netta. La domanda è proprio se ci sia effettivamente stata.

Lady Vendetta

Rivivere all’infinito il male

Quando viene arrestata, Geum-ja è costretta a rimettere in scena per i media le sue -presunte- azioni crudeli. La presenza degli schermi e delle videocamere è una costante nella trilogia della vendetta. Qui, in particolare, le cassette catturano gli ultimi istanti di vita dei bambini. Quando Park Chan-wook filma i personaggi che subiscono gli snuff movie con la morte dei loro figli in TV lo fa dando l’impressione che tutto accada in diretta. Come se i bambini fossero imprigionati in un’eterna sofferenza all’interno della cassetta.

Rivivere il trauma è uno dei presupposti della vendetta. C’è un qualcosa che resta, che non si riesce a scrollarsi di dosso. Qui il pessimismo del regista raggiunge l’apice. Tutta la vicenda resta, fuor di metafora, una faccenda di classi sociali.

È sempre questione di lotta di classe. I poveri non possono fare altro che farsi giustizia da soli. Non c’è nessun sistema che tuteli le persone. Non c’è legge né equità nella pena. Siamo soli nel nostro dolore, la nostra sofferenza ci accompagna per anni e non c’è rito che possa purificarci. Piuttosto è bello guardarlo in faccia quell’abisso e a volte lanciarsi dentro. Alla fine di Lady Vendetta si affoga la faccia nel candore di una torta di tofu. Ma a chi è concessa la purificazione?

Ancora oggi la visione di Park Chan-wook è agghiacciante, pessimista, e potentissima proprio grazie alle domande che lascia, più che per le risposte che dà.

Anche se siamo poco più di bestie… non abbiamo anche noi diritto alla vendetta?

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