Quando si cercò di creare un universo condiviso e moderno di mostri Universal si guardò ai supereroi. Sarebbero stati creature sovrannaturali che traevano i loro poteri dal male invece che dal bene. Poco di più, poco di meno. Che pigrizia! Infatti dopo il deludente La Mummia il progetto fu accantonato per mancanza di pubblico. O di idee. Nel 2020 L’uomo invisibile di Leigh Whannell, prodotto da Jason Blum, arrivò insieme al Covid portando con sé anche una ventata d’aria fresca per dire come si sarebbero potute fare le cose. Un’intuizione molto forte a attorno a cui costruire l’intero film. Pensava cioè che i mostri sono classici lo sono perché incarnano paure che non sono mai andate via.

Così invece che modernizzare queste figure, modernizza il terrore. Ne L’uomo invisibile si parla così di stalking e di molestie. Di una donna, Cecilia, perseguitata da Adrian Griffin, un uomo ricco, geniale e possessivo. Riesce a sfuggirgli e a nascondersi. Lui viene ritrovato morto, ma lei non è convinta che le cose siano andate come racconta la polizia. Si sente osservata, avverte nello stomaco la presenza di Adrian. La follia paranoide però, è dietro l’angolo. 

Vede realmente i segni di un inganno del suo persecutore o è solo una donna traumatizzata che non riesce ad allontanarsi da un momento chiave nella sua vita? La risposta, per chi non l’avesse ancora visto, è arrivata da poco su Netflix. Di seguito invece ci sono solo spoiler.

l'uomo invisibile sequel

L’uomo invisibile usa bene i Jump Scare

Come prevedibile, la tecnologia ottica permette allo scienziato pazzo di perseguitare Cecilia minando la sua vita, isolandola, e riportandola a sé. L’uomo invisibile è prima di tutto un thriller psicologico che funziona molto bene, anche se un po’ più debole nel finale. Il suo problema principale è nell’avvicendarsi di eventi che lo portano su strade narrative anni ’90: la protagonista non creduta e la discesa nella follia. La paura della tecnologia e gli amici in pericolo. Elisabeth Moss usa male il suo talento. Carica troppo le espressioni. Recita come se fosse pazza, per comunicarci proprio questo, anche se noi sappiamo già che non lo è. Cambia alla svelta stati d’animo in maniera virtuosa, ma un po’ artificiale. Leigh Whannell riesce per il resto a fare bene il suo lavoro. Crea una gran tensione con pochissimo.

Va ascoltato bene L’uomo invisibile. Le immagini che trova non vanno molto oltre il tipico immaginario del mostro non visto (un telo da lanciare nel vuoto, la mano sul vapore della doccia e così via). Tiene però il sonoro un po’ più basso, per dare una dinamica molto forte. Se non si può vedere il mostro allora si può tendere le orecchie per il suo arrivo. Lo scricchiolio fa più paura del sangue.

In questa situazione ad alta tensione uditiva sarebbe stato facile abusare dei jump scare. Ce ne sono moltissimi, tutti sono però molto rispettosi del contesto narrativo e dello spettatore. 

Che sia una porta che si chiude tagliando fuori tutti i rumori dell’esterno in un silenzio assordante (jump scare al contrario), o un colpo di colonna sonora al lancio della vernice che rivela la sagoma dell’intruso, gli spaventi vengono dai vuoti e dai pieni ben inseriti nella storia. Il punto dei jump scare è di provocare il sussulto improvviso che prova il personaggio nello spettatore. Non ingannarlo a ogni piè sospinto.

L’uomo invisibile si prende il suo tempo per arrivare allo spavento. Solo ciò che è veramente da temere provoca salti improvvisi. Fino a una sequenza magistrale, che va anche oltre.

L'uomo invisibile

La scena migliore di L’uomo invisibile

Cecilia incontra in un ristorante la sorella Emily. Deve scusarsi per un’email partita dal suo account in cui la insultava (scritta però da Adrian) e confidarle i suoi timori. La scena viene eseguita come un normale dialogo di spiegazione, nessun indizio di tensione per noi. Il campo e controcampo procede in maniera convenzionale, quando l’interlocutrice strabuzza gli occhi nel piano d’ascolto. L’inquadratura si ribalta e si vede un coltello sospeso nell’aria che taglia la gola alla donna e finisce in mano a Cecilia.

È il momento migliore de L’uomo invisibile, l’unico che fa veramente paura, che dà l’impressione di essere in balia di un qualcosa che non può essere controllato. Il nemico arriva nei momenti più impensabili, anche quando nulla suggerisce la sua presenza, quando nulla crea tensione. In un film spinto tutto a cercare di vedere chi può far del male, è proprio quando la protagonista si dimentica di restare vigile (e con lei anche noi spettatori) che si raggiunge il pieno potenziale orrorifico dell’invisibilità.

La direzione è quella giusta

Oltre a questa scena L’uomo invisibile fatica per a far provare lo stesso livello di paranoia di Cecilia fino alla fine. Quando le cose si ingarbugliano sul terzo atto si perde interesse. Ma concretizzare una paura astratta in questo modo, dandole la forma di un mostro umano, è un buon modo per rilanciare gli archetipi in una versione più complessa. 

L’horror d’autore contemporaneo usa il subconscio per creare paure che spieghino i traumi. Così un coltello che fluttua nell’aria è veramente l’immagine migliore per simboleggiare la fuga dagli abusi. Spesso i film di paura terminano proprio nel momento più interessante, quando finisce lo scontro, mentre sarebbe avvincente vedere come viene affrontata l’esperienza nei giorni successivi.

L’uomo invisibile azzecca questa cosa. Era quella che serviva. Inizia alla fine di una lunga storia di violenza e di terrore, per farne partire un’altra dopo il mostro, con il mostro, dove sia la paura che le ferite sono psicologiche. Quindi invisibili.

I film e le serie imperdibili

Classifiche consigliate