Mortal Kombat è su Netflix

La prima cosa che vi consigliamo di leggere prima di affrontare questo pezzo è quest’altro approfondimento che abbiamo scritto di recente su Resident Evil: Welcome to Raccoon City, perché molte delle cose dette a proposito del film di Johannes Roberts valgono anche per Mortal Kombat. Entrambi sono film basati su videogiochi giapponesi. Entrambi fungono da reboot di un franchise lanciato al cinema da Paul W.S. Anderson. Entrambi rappresentano, nelle parole dei loro stessi autori, un ritorno alle origini del franchise, un tentativo di recuperarne gli elementi più iconici e di mettersi alle spalle le deviazioni dallo standard imposte da esigenze produttive – l’abbandono completo dell’aderenza alla narrazione originale nel caso di Resident Evil, la totale assenza di sangue in quello di Mortal Kombat.

Di Resident Evil abbiamo già parlato, spiegando come sia un film parzialmente fallimentare nonostante sia infinitamente più aderente al DNA del franchise rispetto ai film di Paul W.S. Anderson. Il compito di Mortal Kombat era molto più semplice già in partenza perché, come vi spiegavamo qui, il primo tentativo di trasportare il videogioco di Midway venne stroncato sul nascere dalle necessità della censura; e se c’è un motivo per cui Mortal Kombat riuscì, al tempo, a ritagliarsi uno spazio importante nelle sale giochi a fianco di colossi tipo Street Fighter è proprio che era un gioco ultragore. Meno tecnico e meno profondo della concorrenza, soprattutto all’inizio, ma strapieno di deliziosa violenza sempre sopra le righe che sembrava uscita dalla fantasia di Sam Raimi o di un Peter Jackson a inizio carriera.

jax

È bastato quindi pochissimo al Mortal Kombat di Simon McQuoid per conquistarsi le simpatie preventive del suo pubblico: l’annuncio della presenza delle fatality, e dell’attesissimo R rating, era l’unica vera notizia che il fandom di MK voleva sentire per approcciarsi al film con ottimismo e positività. Poi sono successe tante cose, tra cui una pandemia, e per mille motivi impossibili da sviscerare in poche righe Mortal Kombat è andato abbastanza male al botteghino da mettere in dubbio la produzione di un sequel fino al gennaio di quest’anno. Ora che il film arriva anche in streaming potrebbe essere il suo momento: un tempo per diventare cult si passava dall’home video, oggi diventare “il più visto su Netflix” anche solo per un paio di giorni può essere sufficiente per scatenare una reazione a catena che fa definitivamente esplodere il film.

Il nostro parere è che se lo meriterebbe – non perché sia un capolavoro o anche solo un gran film, ma perché è il film che un’intera generazione di fan aspettava da trent’anni. La conseguenza è che Mortal Kombat è un film di trent’anni fa, aggiornato visivamente ma concepito con uno spirito profondamente anni Novanta che prevede, tra l’altro, che se hai una serie di guerrieri dotati di superpoteri che se le danno di santa ragione non hai davvero bisogno di una sceneggiatura, o persino di una trama. Intendiamoci: Mortal Kombat come franchise non ha mai avuto una narrazione particolarmente interessante o profonda; come molti altri picchiaduro della sua epoca, era più interessato alla caratterizzazione dei singoli personaggi che a costruire intorno a loro un mondo coerente – basta trovare una scusa semi-mitologica per giustificare le risse e sei a posto.

Mortal Kokbat Sub Zero

Mortal Kombat il film impara questa lezione (che gli ultimi capitoli della saga videoludica hanno paradossalmente disimparato, visto che hanno cominciato a puntare su narrazioni più precise e coerenti) e la porta alle estreme conseguenze. A partire dalla scelta del protagonista: il cast è composto da alcuni dei nomi più noti del roster dei primi Mortal Kombat (Sonya Blade, Kano, Scorpion, Sub-Zero, tutti presenti fin dal primo capitolo, e poi parecchi nomi comparsi per la prima volta nel secondo o nel terzo come Kung Lao, Reptile e Kabal), sul quale viene però innestata l’anonima figura di Cole Young, che serve come proxy per reintrodurre nella storia Scorpion ma che, a parte quello, non ha alcuna caratteristica distintiva se non quella di essere evidentemente il protagonista, vista la quantità di spazio che gli viene dedicata.

Cole da solo riesce quasi nell’impresa di ammazzare il suo film con la sua inconsistenza. Circondato da caricature larger than life, tra le quali spicca senza fatica il Kano di Josh Lawson, Cole è un buco nero di carisma, con una backstory appena accennata e poco interessante, motivazioni nebulose e la straordinaria capacità di farsi divorare da chiunque sia in scena con lui in qualsiasi istante, fosse anche la sua figlia dodicenne. È un personaggio figlio delle necessità del salto di mezzo, l’avatar senza personalità sul quale chi guarda può proiettare la propria e l’outsider che non sa nulla del Mortal Kombat e può dunque diventare facile bersaglio per gli inevitabili spiegoni.

Eppure vi sfidiamo a trovare un singolo fan di Mortal Kombat che abbia visto questo film concentrandosi su Cole Young e sulla sua storia strappalacrime. Quello che conta, come valeva anche per il videogioco, è tutto il resto – e cioè il fatto che Mortal Kombat è un film di arti marziali, magia e corpi squarciati a metà da un cappello rotante con la tesa di metallo. Ogni dialogo, ogni battutina, ogni momento di introspezione è solo una nuvola grigia che separa una scena di botte dalla successiva, e di scene di botte ce ne sono in abbondanza. Non sono tutte allo stesso livello: la sequenza di apertura che vi abbiamo linkato qui sopra è di altissimo livello (e non a caso è stata diffusa prima dell’uscita del film per farci venire appetito), mentre altre come l’incontro con Reptile degenerano nella confusione estrema, e altre ancora (il mega-combattimento nel tempio di Raiden) funzionano momento su momento ma sono prive di un vero ritmo e progressione narrativa – sono fondamentalmente showcase di arti marziali ed effetti speciali.

Provate a immaginare: è il 1995 e state andando al cinema a vedere un film tratto da Mortal Kombat. Dura un’ora e cinquanta nella quale assistete ad almeno quattro fatality e una decina di scene di combattimento almeno tre delle quali vi ricorderete a lungo. Fuori dalla sala provate a ripensare alla trama ma non vi viene in mente nulla, perché avete ancora negli occhi la fatality di Jax. Alla fine quando vi chiedono se è un bel film voi rispondete “mi è piaciuto, c’è un sacco di sangue”. Non fareste a cambio con quanto successo davvero con il film di Paul W.S. Anderson?

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