The Fast and the Furious: Tokyo Drift è un po’ il fratello minore della saga di Fast and Furious. Per molto considerato alla stregua di uno spin off (o di un reboot giovanile) è invece un capitolo riuscitissimo perfettamente integrato con la trilogia che ha dato origine alla Fast Saga.

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Non c’è Vin Diesel (se non per una breve apparizione finale che collega la trama con il grande affresco del franchise) e nemmeno Paul Walker. A prendere il loro posto Lucas Black, attore non particolarmente memorabile a cui viene però concesso di interpretare un personaggio capace di trascinare la trama: Sean Boswell. Il ragazzo è uno scavezzacollo. Adolescente con la faccia da trentenne rimbalza la sua vita tra la scuola e le corse clandestine con le auto. Dopo l’ennesima bravata e un pericoloso incidente gli viene data una scelta: o andare al riformatorio o raggiungere suo padre, un militare che sta prestando servizio a Tokyo.

Non troppo convinto, Sean espatria. Nonostante Tokyo Drift cerchi di essere la storia di un pesce fuor d’acqua, il ragazzo non fatica a integrarsi nella nuova classe. Superata miracolosamente la barriera linguistica, con lui che impara rapidamente il giapponese e tutti che parlano in inglese fluentemente, inizia a socializzare. Scopre in poco che il microcosmo giovanile di Tokyo non è tanto diverso da quello americano. Tutti, ma proprio tutti, vivono una doppia vita: bravi studenti di giorno e piloti in gare clandestine di notte. Ovviamente Sean ci si butterà dentro capo e collo. Salvo scoprire che se negli Stati Uniti le questioni si risolvono con una rissa e al massimo includono qualche legame con il narcotraffico, in Giappone le gare sono controllate dalla Yakuza.

The Fast and the Furious: Tokyo Drift ha il merito di avere introdotto il regista Justin Lin nella saga, il quale la prenderà in mano per svariate puntate e con grandissimo successo. Non solo: idealmente Tokyo Drift chiude la prima trilogia di Fast and Furious. La più plausibile, quella in cui ancora contavano le corse, e dove la realtà e – in parte – la gravitas drammatica dovevano fare i conti con le leggi della fisica. Due sequel non pianificati, e si vede, spesso sfilacciati e con legami molto deboli l’uno con l’altro. Sono più aggiunte al mito, che continuazioni della storia.

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Però c’è anche una grande coerenza interna, forse involontaria, ma cinematograficamente molto affascinante. Come abbiamo già detto è come se i personaggi imparassero a guidare di film in film. In Fast and Furious le gare erano sostanzialmente dritte. Due punti, una partenza e un arrivo da raggiungere il prima possibile. 2 Fast 2 Furious invece aggiungeva la dimensione del salto. Andava in verticale superando ponti levatoi in volo, prendendo scorciatoie e saltando da un pontile a una nave. Le macchine diventano un oggetto complesso, non un mezzo di trasporto ma quasi un’arma. Sicuramente un’espressione del proprio guidatore.

In Tokyo Drift si completa la formazione su strada. Sean deve imparare, appunto, il drifting: il controllo della macchina durante un momento di perdita di aderenza. Nella mentalità di Fast and Furious: deve imparare le curve.

Il film però funziona alla grande. Ha un passo spedito, si giova particolarmente del cambio di location cercando anche timidamente di descrivere l’influsso della cultura americana sulle altre (la macchina dipinta come Hulk). Nessuna velleità intellettuale però. Quello che presenta è un mondo diverso dove non sempre la mentalità da “spavaldo e migliore made in U.S.A” garantisce la vittoria. Che poi sia sempre l’amore per una ragazza a far fare le peggiori stupidate al protagonista, spesso così insolente da non permettere troppa empatia con lui, sono stereotipi su cui si può soprassedere.

Sean infatti, a differenza di Brian e Dom, si ritrova a imparare tutto da capo. Riparte da zero e per farlo deve capire un po’di cose del mondo e di sé, deve poi allenarsi, sbagliare e sbagliare ancora fino a fare l’acrobazia giusta. Il tutto in un contesto in cui ogni errore può costare la vita. Insieme a lui c’è anche Han, il vero protagonista con cui riusciamo minimamente a identificarci. I due insieme moderano l’aspetto “buddy”, ma continuano a regalare delle dinamiche di forza piuttosto interessanti.

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The Fast and the Furious: Tokyo Drift usa meglio gli effetti speciali in green screen rispetto a 2 Fast 2 Furious. È girato bene; pur essendo ambientato di notte è chiarissimo nella velocità, i veicoli sono credibili, si distruggono e falliscono. Non sono macchine perfette, ma vanno calibrate. Sono uno strumento nelle mani dei piloti fallibili e umani come non lo sono mai stati nella saga.

C’è una scena che racchiude tutto lo spirito della regia di Justin Lin. È un inseguimento nelle strade della metropoli che culmina con un drift a rallentatore nell’incrocio di Shibuya. La folla si sposta per far spazio alle macchine in corsa. I piloti osservano i volti dei passanti. Per la prima volta ci si rende conto che esiste un mondo al di fuori di questo, che c’è una società che non partecipa a gare clandestine, che non si interessa di motori e malavita. Insomma, si capisce che Tokyo Drift è ambientato nella realtà (tra virgolette…).

Da qui in poi la timeline si ingarbuglierà e Fast and Furious inizierà la sua irreversibile trasformazione. Molto si pederà e molto altro arriverà a fondare la rinascita della serie. Il centro ritorneranno Diesel e Walker, l’adrenalina e la spettacolarità. Ma nulla di questo sarebbe stato possibile senza l’evoluzione di Tokyo Drift. Il fratello dimenticato per molto tempo, ma che ora la famiglia sta riportando al centro.

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