Non ci resta che piangere è su Netflix

Cosa si può dire su Non ci resta che piangere che non sia già stato detto mille volte in passato? Innanzitutto che è appena arrivato su Netflix. Poi che, purtroppo, la versione sbarcata sulla N rossa è quella da un’ora e tre quarti che uscì al cinema nel 1984, non quella da due ore e venti che venne invece portata in TV, e che dava tra le altre cose più spazio al personaggio di Astriaha. Infine che, a distanza di quasi quarant’anni dall’uscita e di quasi trent’anni dalla morte di Massimo Troisi, il loro primo film insieme rimane un’opera inimitabile, influente come poche ma per fortuna mai toccata dalle tentazioni di remake che stanno pian piano macchiando anche i film più insospettabili.

Il motivo per cui Non ci resta che piangere sta resistendo là dove persino … altrimenti ci arrabbiamo! ha fallito è che è fisicamente impossibile pensare di rifare un film che non dipende tanto dalla sua storia, dalla sceneggiatura, da chissà quale prodigio tecnico, ma solo ed esclusivamente dai suoi due protagonisti, attori, registi, scrittori – “sceneggiatori” per un film sostanzialmente improvvisato come fosse un pezzo teatrale suona fuori posto –, mattatori assoluti. Senza Massimo Troisi e Roberto Benigni il film non sarebbe esistito e non potrebbe esistere oggi, perché non c’è nulla in Non ci resta che piangere che non dipende direttamente dalla loro presenza, dalle loro idee e dalla loro capacità di improvvisare.

Non ci resta che piangere Leonardo

Non è solo un discorso di “è impossibile sostituire Benigni e Troisi con altri due”. Come vi avevamo già raccontato in occasione dell’arrivo del film su Disney+, Non ci resta che piangere è un film che fa dell’errore, e del fregarsene dell’errore, uno dei suoi punti di forza. Un film che contiene almeno tre diverse scene (ma magari ce n’è sfuggita qualcuna) nelle quali i protagonisti ridono prima del previsto, e apparentemente senza motivo, semplicemente perché Benigni, Troisi e il resto della crew si stavano divertendo troppo e non avevano intenzione di rientrare nei ranghi. Come si può pensare di rifare un film del quale sono state tenute le scene con meno risate fuori luogo? È una pazzia quasi da Monty Python (che però lo facevano studiatamente), un modo per giocare con la quarta parete senza necessariamente infrangerla a colpi di postmodernismo. Poche cose sono più contagiose di una risata che sfugge, e Non ci resta che piangere è un film che lo sa e la cavalca con gusto.

Capite perché viviamo sereni sapendo che a nessuna persona che tiene alla sua carriera verrà mai in mente di pensare a un remake di Non ci resta che piangere? Azzeccare il film perfetto è difficilissimo; azzeccare un film perfetto perché tutto sbagliato è il genere di fulmine nella bottiglia che riesci a intrappolare una volta ogni mille anni. Quanti film sono stati montati dopo mesi di duro e amaro lavoro di tagli e ne sono usciti così squinternati e quindi così magnifici? Non ci resta che piangere va ammirato dalla giusta distanza, e conservato sotto un’ideale teca che lo preservi da qualunque pallido tentativo di imitazione – non tanto per il film, quanto per impedire che la gente si rovini la carriera provando a replicare l’alchimia della coppia Benigni/Troisi.

Samanda Andrelli

D’altra parte la comicità italiana ha già imparato tutto quello che doveva imparare da Non ci resta che piangere, un film di battute memorabili e soprattutto di meme, parecchi anni prima che il concetto di “meme” uscisse dalle accademie e facesse il suo ingresso nella cultura popolare. Non è facile trovare in Italia una persona sopra i trent’anni che non risponda “mo’ me lo segno” se le dici “ricordati che devi morire”. Credete che in questo Paese sappiamo cos’è un fiorino perché ci ricordiamo le ore di storia al liceo? Quante coppie sono nate dopo il 1984 perché lui ha convinto lei di essere l’autore di Yesterday? (OK, forse ci stiamo facendo prendere la mano)

Benigni e Troisi con Non ci resta che piangere hanno insegnato un modo di far ridere che ha segnato il cinema italiano per i successivi quarant’anni, partendo dalle rispettive carriere dei due per arrivare fino a gente geograficamente lontana dai due (e la toscanità di Benigni e la napoletanità di Troisi sono pezzi decisivi dei loro personaggi) come Aldo, Giovanni e Giacomo, che soprattutto nei loro primi film guardano più volte a questo assurdo viaggio nel tempo strutturato come una sorta di versione al negativo di Un americano alla corte di re Artù. Non sono tanti i casi di film che sono stati modello e ispirazione senza diventare mai vittime di saccheggio o tentativi di imitazione, e il fatto che uno di questi sia il film meglio sbagliato della storia del cinema italiano è un miracolo di tali proporzioni che è importante lasciarlo lì, intatto, da ammirare ma non da toccare.

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