L’odio è il film della vita. Lo si sente dire anche da persone che non hanno mai sperimentato la marginalità delle banlieue parigine. Anche da chi mai si potrebbe identificare nei suoi protagonisti. Eppure ci parla. È questa la sua grandezza: non serve avere imbracciato una pistola, avere sperimentato la libertà di vivere alla giornata, per sentirsi responsabili della sorte dei tre amici Vinz, Hubert e Said.

Nel 1995 Mathieu Kassovitz portava in sala quest’opera spartiacque

C’è un prima e un dopo la visione de L’odio. Pochi altri film riescono a far intuirei questo modo le potenzialità del cinema. Da strumento di intrattenimento diventa un mezzo di espressione sociale che impatta il reale.

Non è però un cinema di responsabilità civile come erano i capolavori del neorealismo. Anzi, inserisce spesso elementi fantastici, movimenti di macchina impossibili: la panoramica che segue il diffondersi delle onde sonore musicali all’interno del quartiere. Il dolly zoom vertiginoso che permette per un attimo, solo per un attimo, un respiro prospettico in cui si rivela l’esistenza di un orizzonte, dietro agli sfondi sfocati che incorniciano i ragazzi di strada. In luridi cessi si raccontano storielle moraleggianti che non hanno un vero significato, se non quello che gli attribuisce chi ascolta. Vacche che attraversano la strada, inosservate se non da una persona sola: un visionario con un’illuminazione inutile.

L’odio è un film che ha segnato per sempre (sempre che si creda che l’arte possa farlo) molti spettatori per la semplicità con cui affronta temi complessi e li fa sentire nella carne. È un film dalla natura profondamente pacifista, ma non è ingenuo. È persuasivo non per le ragioni che adduce in favore delle periferie. Lo è perché smonta la voglia di odio mostrando le conseguenze concrete come uno schiaffo sul pazzesco finale. La stragrande maggioranza dei film avrebbe ripreso le banlieue lasciando trasparire una superiorità intellettuale (non ultimo il pur valido I Miserabili), Kassovitz invece affronta i problemi come lo farebbero i suoi personaggi: parlando chiarissimo, senza giri di parole, diretto e spietato. E un po’ mandando a quel paese chi ascolta.

La schiettezza dell’odio

Non è un film teorico. È pratico. Perché è ispirato da fatti veri (ma quanti altri lo sono?) e soprattutto perché non cerca il distacco critico, la distanza dell’autore. Una prospettiva politicamente corretta e confortevole. Vuole invece sporcarsi le mani. Vuole prendere posizione schierandosi con gli indifendibili: i piccoli criminali di quartiere, i ragazzi nullafacenti e marginalizzati dalla grande città che però hanno trovato un modo di far convivere la composizione multietnica che li caratterizza. Sfuggono di mano alla politica che tenta soluzioni “su carta”. Sperimentazioni che funzionano solo in linea teorica, come l’aumento della polizia a controllo dei quartieri difficili. Invece che essere argine, mette pressione su tensioni pronte a esplodere.

Non c’è una trama vera e propria ne L’odio. Ha però un qualcosa da dimostrare. Lo fa raccontando le esistenze incrociate di tre amici scandite da didascalie che, come il conto alla rovescia di una bomba, preludono al disastro.

Non c’è pietà per chi guarda voltandosi dall’altra parte. C’è infatti una grande attenzione mediatica su queste strade. Una troupe televisiva si avvicina agli adolescenti annoiati in un parchetto e si interessa ai loro pensieri. In realtà, e lo capiamo da come sono ripresi, per loro queste seconde generazioni non sono altro che attrazioni da zoo. Animali in gabbia utili a fare audience. Poco importa come stanno.

L'odio

Una prigione invisibile

Le strutture architettoniche sono criticate ancora più delle persone. Per il film in quei palazzoni c’è un sistema di contenimento nascosto. Un carcere a cielo aperto, dove fuggire è difficile se non si possiedono privilegi. Per gli altri conviene rispettare le regole del posto, diverse e più importanti di quelle sancite dalla costituzione. Siamo in un limbo, che ha però conseguenze anche al suo esterno. 

I media sono assorbiti e rimasticati. Vinz si guarda allo specchio e imita Travis Bickle di Taxi Driver. In un secondo momento Il Cacciatore sarà ispirazione per una finta roulette russa. Vinz, Hubert e Said come il buono, il brutto e il cattivo sono il bianco, il nero, l’arabo. I tre segmenti di popolazione che abitano quelle case. Si sovrappongono quando si parlano, gridano uno più forte dell’altro frasi incomprensibili. Non si sopportano nella loro lealtà reciproca. In un contesto diverso sarebbero probabilmente rivali, qui sono costretti ad un’alleanza molto funzionale.

L’odio è costantemente teso tra una distanza critica (quella concessa solo sul finale) e un’immersione che porta a una riflessione di parte. Risolve questa sua contraddizione negli specchi e nelle immagini prodotte dalle cineprese interne al racconto. Presenta così sia la prospettiva borghese, da metropoli, ai problemi delle periferie, che quella in primo piano degli emarginati.

L’odio è imprevedibile

A differenza delle molte pellicole che hanno affrontato lo stesso tema, il film di Kassovitz è imprevedibile. All’andamento logico degli eventi contrappone sempre un elemento imprevedibile. Due amici litigano. Il litigio cresce. Un signore esce dal bagno blaterando del suo passato da deportato. Oppure, allo stesso modo: la pistola, elemento di tensione costante per tutto il film, viene consegnata in mani migliori di quelle di Vinz. Si scioglie il senso di pericolo: quando un’arma viene inquadrata, è molto probabile che poi venga usata. E proprio quando il film si appresta a terminare si aggiunge una coda: una macchina della polizia si avvicina e una nuova pistola viene puntata alla tempia del ragazzo.

Come se avesse il sentore di una morte imminente, Vinz si è protetto per tutto il film. Solo quando si priva dell’oggetto, garanzia di immunità nelle strade, ritorna vittima. Lui però, destinato a soccombere, non è fatto per essere un carnefice. Agisce come tale, perché ha visto come si fa, e ha capito che quello è l’unico modo per cavarsela. È nel suo intimo una persona diversa che non faremo in tempo a vedere mai rappresentata. 

Per questo è semplice definire L’odio come il film della vita. Quasi appropriandosene, in maniera un po’ egoista, anche se non si ha nulla da spartire con i personaggi. Si vorrebbe essere lì con loro, per cambiare qualcosa e fermare l’incessante cammino verso la violenza. Si empatizza perché veniamo trattati come se fossimo all’interno del gruppo. Dobbiamo sgomitare per sentire anche noi quello di cui si discute sui tetti. Ma non è solo quello. Si empatizza perché ci riconosciamo tutti come vittime.

Kassovitz ha fatto così qualcosa di più del film della vita: ha fatto un film sulle vite. Quelle spesso raccontate come problemi, numeri, statistiche. Invece queste esistenze diventano persone con i sogni stampati sulle pareti e con le paure portate in tasca. È esattamente l’opposto di quello che fa la troupe che riprende le ore trascorse con noia dai giovani del posto.

Kassovitz non si interessa dei fatti, indaga invece le ragioni e le spinte psicologiche e le conseguenze. Insomma: fa un film vero. Così chi guarda scopre nuovi posti in cui vivono nuove persone, che non si pensava potessero essere così simili anche a chi della differenza, del rispetto delle regole e della conformità con le idee politiche della società, ha fatto un vanto. Si inizia il film credendosi diversi dai suoi personaggi. Si finisce sentendosi uguali. E questa volta non serve più una pistola rivolta allo schermo per considerarsi coinvolti.

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