Joker arriva su Netflix il 6 dicembre.

Ultimamente il clima riguardo ai film di supereroi non è serenissimo. Non per colpa di chi li fa (loro continuano imperterriti nella loro strada), bensì di chi si rifiuta di accettare questo genere come espressione artistica. Quando si affronta questo argomento si pensa – ovviamente – a Martin Scorsese, il nome più autorevole che ha espresso a riguardo la posizione più dura. Molte voci si sono però unite al coro nel tempo. E non c’è nulla di male, anzi, ogni discussione è sempre linfa vitale per la creatività. Questo poi è un dibattito che c’è praticamente da sempre. Nasce fuori dalle fumetterie e si è da poco trasferito nei multiplex. Ma la sostanza è la stessa. I fumetti sono sempre stati accusati di non essere letteratura o una forma subordinata a questa (ipotesi portata avanti anche recentemente da Aldo Cazzullo). Proprio come oggi questi film non sono considerati cinema da taluni. 

Eppure pochi titoli riescono a generare introiti così grandi, e a catalizzare talmente tanto interesse, che Hollywood non può farne a meno. Lo sanno anche i detrattori dei cinecomic, anche se lo negano: il successo di un blockbuster non comporta alcun danno ai film arthouse. Gli insuccessi sì. Perché portano meno gente in sala, perché meno giovani si possono approcciare al grande schermo, perché gli studi possono rischiare di meno mancando eccedenze da reinvestire in film più sperimentali.

Quindi, come reazione, questa nuova generazione di autori indipendenti o appartenenti al mondo dei “grandi premi”, ha preso in mano il timore. Ha capito che il cambiamento va gestito. Che la moda può essere seguita, pur mantenendo una propria identità. Ci ha provato James Mangold con Logan, e recentemente abbiamo visto Chloé Zaho con Eternals. Non è un caso che a lei siano state rivolte critiche proprio per avere piegato il suo stile in funzione delle esigenze Marvel. Se poi queste critiche siano vere lo lasciamo decidere al giudizio dei singoli e a questo approfondimento. 

Sulla sponda DC questo tentativo di trasportare i personaggi dei fumetti nel film d’essai è subito identificato da Joker. Anche se, a ben guardare, l’esigenza autoriale di Todd Phillips non è tanto diversa da quella di Zack Snyder, seppur con risultati diversi. È innegabile infatti che Snyder abbia messo tutto sé stesso nella sua trilogia. I punti di debolezza sono espressione proprio di questa perfetta adesione alla visione del regista. Che resta grezza, non lavorata, e quindi imperfetta, ma genuina nel bene e nel male.

Quella che invece è più limata e furba è la forma di Joker. Che non abbraccia appieno il fumetto come fa Snyder, ma anzi, se ne vergogna un po’. Prende a piene mani da Batman: The Killing Joke di Alan Moore, ma lo fa con distanza e un po’ di imbarazzo. Distrae l’attenzione citando riferimenti che, da quello che ci comunica la messa in scena, sono palesemente più amati: Taxi Driver, Re per una notte, Cape Fear, Tempi Moderni… Insomma, il grande cinema. Ancora prima che i grandi fumetti.

 

Joker Joaquin Phoenix

E va bene così.

Joker non è un film di uno sprovveduto, ma di un regista che ha fatto una precisa scelta stilistica. Solo che questa non sempre è coerente ed efficace come vorrebbe far credere.

Quando si pensa alle accuse di Scorsese (che avrebbe dovuto produrre il film salvo defilarsi per altri impegni) tra i registi a cui viene puntato il dito non rientra mai Todd Phillips. Perché con la sua opera cerca di superare l’ossatura del genere. Lo piega per farne un film altro… apparentemente lontano da quello che siamo abituati a conoscere.

Arthur Fleck potrebbe benissimo non diventare Joker, ma un altro personaggio e il film girerebbe lo stesso coerentemente dall’inizio alla fine. Posizionandosi così lontano dal cinecomic ha dichiarato di voler a competere in un’altra categoria. Quello dei film “sociali”, di denuncia, con i grandi messaggi da dare senza lasciare spazio all’elemento più ludico e popolare.

Ma lì, in quel campionato, il già visto e il banale sono sempre in agguato.

Joker ha dentro di sé alcuni grandi problemi che ruotano tutti attorno a un cardine: Arthur Fleck. Sgombriamo ogni dubbio: Joaquin Phoenix non interpreta il Joker per fare un servizio al personaggio. Non lo ama nella sua versione cartacea, ma lo fa perché è un foglio bianco in cui può dare sfogo delle sue doti.

È infatti eccessivo e manierista; fallisce nel nascondere l’attore dietro la maschera. Non vediamo mai Arthur, ma sempre l’attore nei panni del povero ragazzo. Si ammira la performance pirotecnica, ma si fa molta più fatica a vedere un’anima autentica. Cosa che invece sia Jack Nicholson che Heath Ledger riuscivano a fare. Andavano a mille pur dando l’idea di avere il freno tirato. Phoenix va a mille pretendendo di andare a duemila.

Arthur incarna l’immagine del vinto. Un debole messo ai margini della società, deriso e malmenato. Uno scarto inutile, uno dei tanti ratti che infestano le strade. A Phillips non interessa però il suo rapporto tra le emozioni personali e la psiche. Come una influenza l’altra. Quando cerca di metterci nella sua soggettiva non ha mai il coraggio di essere esplicito. Vuole impressionare con l’ambiguità: quanto è lucido? Quanto nasce la sua sete di sangue dalla follia e quanto dal dolore? Ma alla fine quello che lo attrae di più è l’Arthur Fleck come un prodotto. Una scatola alimentata dall’esterno, che riceve continuamente stimoli e reagisce sulla base di schemi dati da altri.

Nessuna azione del protagonista è volontaria, tutto gli viene indotto da fattori esterni (tranne una cosa, a dire il vero, ma la vedremo tra poche righe). La televisione è quasi ipnotica, lui la osserva a lungo e diventa portatore del messaggio di violenza che viene trasmesso in diretta. Fleck vuole ciò che i messaggi delle insegne e dei media gli dicono che sia la felicità. Ovvero la fama, il successo, l’approvazione. Vive imitando modelli, gode delle aspirazioni altrui. 

Vedere Joker come prodotto della società è comunque una trasposizione accettabile rispetto al personaggio nei fumetti (dove invece è l’esterno distruttivo, il caos indipendente da tutti)?

Ammettiamo di sì, dato che ci sono molte interpretazioni anche su carta. E che l’importante sia che tutto funzioni e sia coerente. Nel film non è così. Questa visione infatti sarebbe stata efficace solo se ci fosse stata una società almeno vagamente delineata. Un contrappunto in cui far risuonare la complessità. Sennò quello che resta è solo rabbia adolescenziale.

 

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Invece il film mette tutta l’energia per cercare di rendere interessante Arthur, dimenticandosi del contorno. Non c’è un personaggio secondario che sia memorabile! Sophie di Zazie Beetz viene completamente annullata dalle velleità alla Fight Club. Con un rapporto tra i due in bilico tra la realtà e molto più spostato verso la fantasia del protagonista, il personaggio perde ogni spinta propulsiva dalla metà in poi. Lei che era l’unico contrappunto di luce. Viva la costruzione di un mondo cupo, in cui anche Murray si trasforma in un mostro al contatto con Arthur. Ma se il protagonista non si può confrontare con nessuno di reale, come possiamo trovare interessante la sua scelta di rifiutare il bene? O meglio: ha veramente scelta se non ha mai visto un’alternativa?

Perché in quell’universo non c’è psicologia collettiva. Non c’è nulla nel film che riesca a dare sfumature al comportamento della massa. I ricchi sono tutti crudelissimi con lui. Ma perché? Solo per il fatto di essere ricchi? E il resto delle persone, cosa pensano? Come pensano? Il film si scaglia contro i cattivi con le belle case, e non spiega mai perché loro siano diventati così: cinici ed egoisti. Si diverte molto a raccontare il suo eroe come l’unica vittima senza che nessuno, intorno, gli tenda una mano caritatevole. Eppure ce ne sono tanti di Arthur Fleck, dice il film alla fine, e sono pronti a scendere nelle strade. Solo che non li abbiamo mai visti, salvo apparire all’improvviso. Non c’è veramente possibilità di una solidarietà silenziosa, furba, efficace, prima della valenza? Quali rivoluzioni esplodono senza essere neanche un po’ preparate prima?

Il protagonista non sceglie, tranne una volta, dicevamo. Sta qui il più grande scivolone di Joker. L’unico atto di volontà che lo “libera dalle catene” è quello di cedere alla follia. Di accettarla come parte bella e vincente di sé. Questo si traduce nella scelta di smettere di seguire le cure. I medici, in quanto istituzione, sono altri oppressori. La malattia mentale non è, appunto, un disturbo da curare, ma un superpotere che libera. Inutile sottolineare quanto questo sia un errore non tanto di filosofia di vita (non crediamo che Phillips lo pensi veramente), ma proprio di sceneggiatura. Volendo fare un’elegia dell’oppresso, è caduto nell’errore di sparare nel mucchio. Di vedere istituzioni e meccanismi di contenimento ovunque. Mitizzando qualcosa di troppo e condannando ciò che non andava condannato.

L’unica via di fuga non può essere la follia, non in un finale trionfante e di riscatto. A Joker manca l’amarezza finale, l’ambiguità che trasforma il personaggio da “eroe del 99%” a un “assassino con idee giuste, ma mezzi sbagliati”. Ossia il vero contrappunto a Batman.

Joker è certamente un film con tanti meriti, primo dei quali l’aver messo in fila tanti talenti e averci creduto fino in fondo. È però un’opera profondamente imperfetta, in cui gli scivoloni vengono mascherati da una forma visiva impeccabile. Meno originale di quanto dica di essere, Joker ripudia il cinecomic nella sua forma narrativa e cerca di vendersi come un poema ricercato. Come il grande capolavoro postmoderno che non è. Invita a sopravvalutarlo e, francamente, è anche molto soddisfacente farlo perché coccola e compiace nell’idea di aver visto qualcosa di più di quello che in realtà è il film. Ma è un inganno.  

Joker sarebbe stato un buon cinecomic se avesse cercato di adottarne il linguaggio preciso, puntuale, e lucido, quello in grado di parlare della realtà mostrando la fantasia. E quindi, attraverso quella lente, andando ancora più n profondità. Invece è finito ad essere un mediocre film d’autore, in cui il tratto grottesco ed esagerato va a togliere sfumature proprio alla realtà che lui pretende di mostrare.

Insomma, Joker voleva ad ogni costo giovarsi delle tensioni tra i due estremi del cinema. Voleva stare nel mezzo strizzando l’occhio ai grandi registi e dandogli ragione. Si propone quindi di essere d’autore, ma non troppo. Trarre ispirazione dal mondo DC, ma non troppo. Riuscendo in entrambe le cose, ma senza trionfare veramente in nessuna delle due. A furia di stare nel mezzo è diventato un film che sfoga le emozioni più basse; l’opposto di ciò che voleva essere. Lo fa gridando slogan più semplicistici di quelli che si proponeva, senza nemmeno accorgersene. Insomma: voleva uscirne incolume, invece è diventato la prima vittima di una guerra tra cinema “alto” e “basso” che si è creato da solo.

Trovate tutte le notizie su Joker nella nostra scheda del film!

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