Starship Troopers è su Star di Disney+

La storia del cinema è costellata di ingiustizie, ma poche sono dolorose quanto il fatto che Starship Troopers di Paul Verhoeven sia stato un mezzo flop e considerato per anni quello che non era, cioè un’opera di esaltazione del militarismo e dell’autoritarismo, con una certa propensione per fascismo e nazismo. Quale periodo migliore per riconsiderarlo e farlo tornare in auge che questi anni di polarizzazione costante e di incapacità collettiva di cogliere le sfumature e i toni di grigio in un discorso?

Nel 1997 Starship Troopers venne descritto come un film vuoto e privo di logica; Roger Ebert lo definì “monodimensionale e poco divertente”. Quasi tutte le critiche lo presentarono come il logico adattamento del romanzo di Robert Heinlein da cui è effettivamente tratto – pochissime recensioni ne riconobbero invece l’approccio satirico, un modo radicalmente diverso di affrontare la storia di Johnny Rico rispetto all’estrema serietà della fonte. Non è questa la sede per discuterne, ma Fanteria dello spazio è un romanzo che è stato additato negli anni alternativamente come opera di propaganda fascista, pamphlet a favore del militarismo o come l’inno libertario definitivo; scegliete voi l’interpretazione che più vi convince, resta il fatto che il libro di Heinlein affronta tutto con estrema serietà e senza mai concedere nulla al buonumore – tra le sue pagine è difficile trovare tempo anche per un sorriso.

 

Denise

 

Verhoven ha sempre odiato il romanzo di Heinlein, al punto da non essere riuscito a leggerlo tutto – la storia gliela raccontò Ed Neumeier, lo sceneggiatore del film. E nel 1997 aveva già ampiamente dimostrato quale fosse la cifra stilistica della sua nuova avventura americana: il trolling verso l’America. Fate due più due e capirete perché Starship Troopers fu per Verhoeven l’occasione di proseguire sulla strada della decostruzione dell’immaginario americano a forza di sfottò; il problema, che problema non dovrebbe essere ma che si trasformò in tale una volta che il film arrivò in sala, è che rispetto alle satire precedenti di Verhoeven Starship Troopers fa un passo ulteriore.

Pensate alle più famose satire belliche e non solo della storia del cinema, da Il dottor Stranamore a Comma 22. Ora considerate questa frase di Verhoeven su Starship Troopers: «Volevo che il pubblico per tutto il film si chiedesse “ma questi sono pazzi?”». La satira classica non pone questa questione sotto forma di domanda ma di affermazione: sì, questi sono pazzi, e ci sono sempre elementi nella storia che servono a svelarli in quanto tali – il personaggio fuori posto e con la testa sulle spalle che fa da contraltare al fatto che il resto del mondo intorno a lui si comporti in maniera assurda. È il meccanismo che un film come Idiocracy ha messo al centro della sua comicità: c’è una situazione senza senso, e ci sono dei personaggi che ci si ritrovano e fungono da sanity check per il pubblico.

 

Busey

 

In Starship Troopers l’elemento estraneo e di contrasto è completamente assente. Il film, di fatto, racconta un’utopia: una società in cui chiunque dimostri di voler dare tutto per la patria può ottenere tutti i privilegi e i vantaggi che vuole, la meritocrazia suprema. Ma non è un’utopia nostra, è un’utopia loro: stiamo guardando quello che per i personaggi del film è il migliore dei mondi possibili, e che a noi sembra tutto sommato un incubo. Film come RoboCop e Atto di forza sfumavano la barriera tra storia e satira senza mai infrangerla; Starship Troopers la nuclearizza, eliminando ogni elemento intermedio tra noi e il mondo assurdo e (quello sì) iperfascista del film.

È chiaro che questa cosa non fu capita al tempo, altrimenti Starship Troopers non sarebbe mai stato descritto come un film fascista o pro-bellico. A riguardarlo oggi è difficile immaginare come nel 1997 qualcuno abbia potuto vedere una scena come questa

 

 

e pensare che fosse da prendere sul serio. O ancora meglio una scena come questa

 

 

che quando l’ha fatta Sacha Baron Cohen in Borat 2 è stata salutata come geniale satira. Ed è più in generale difficile capire come il punto del film sia potuto sfuggire a così tanta gente. Verhoeven è tante cose, tra cui uno dei più grandi registi in circolazione, ma raramente è sottile e ammiccante. Tutto in Starship Troopers profuma di muscoli, libertà e deodorante muschiato; Casper Van Dien, Denise Richards e Dina Meyer sono statue greche a cui è stata donata la vita, e in generale in tutto il film vediamo solo gente bella, atletica e sempre sorridente. Persino Ace, il personaggio di Jake Busey, che in altri film simili (si veda Top Gun) avrebbe avuto il ruolo del rivale del protagonista che fa pace con lui solo sul finale in punto di morte, è un adorabile cazzone che fa subito amicizia con Johnny Rico. L’intero primo atto del film è praticamente una romcom per teenager!

 

Starship Troopers Denise

 

Eppure, nonostante con il senno di poi le intenzioni dietro Starship Troopers siano evidentissime, il film venne recepito come se fosse il suo opposto polare, e per questo stroncato. Ripetiamo quindi la nostra ipotesi: si tratta di pigrizia, perché di fronte a un’opera satirica che non proponeva una soluzione (“sì, questi sono pazzi”) ma una domanda (“ma questi sono pazzi?”) si scelse di ignorare la finezza e prendere il film fin troppo alla lettera, e di credere che davvero Paul Verhoeven ci stesse dicendo “guardate che figata questo nuovo mondo che è letteralmente il nazismo”. L’unica altra possibilità è che al tempo molta gente non si fosse fermata in sala fino alla fine, perché non capiamo come sia possibile guardare questo finale

 

 

e pensare “ecco un film che celebra la bellezza dell’autoritarismo e dell’ultramilitarizzazione della società!”.

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