La profezia dell’armadillo è su Disney+. Riflettiamo sulle ragioni di un insuccesso.

Lo studioso di robotica Masahiro Mori ha teorizzato l’uncanny valley. Ovvero una zona perturbante situata al confine tra la sensazione di piacevolezza e familiarità delle sembianze di un robot umanoide e l’inquietudine. Di fatto Mori ha notato che i robot antropomorfi che assomigliano sempre di più a persone vere producono reazioni positive nell’utente proprio in funzione della loro famigliarità con qualcosa che conosciamo bene. Quando il realismo diventa eccessivo -ma non assoluto- c’è però un repentino calo delle emozioni positive. Al contrario delle intenzioni infatti, di fronte a robot che volevano essere realistici e accoglienti gli utenti hanno provato repulsione. La profezia dell’armadillo, il film di Emanuele Scaringi tratto dall’omonimo fumetto di Zerocalcare, si colloca proprio qui.

Tutt’altro che perfetto, il film non è il fallimento totale che si è amato descrivere nel momento della sua uscita. Ha infatti alcuni meriti troppo spesso taciuti. Il primo è il Secco di Pietro Castellitto Non tanto per il personaggio in sé, ma per la clamorosa scoperta dell’attore che l’ha interpretato. Nel 2018 fece il suo esordio cinematografico in età adulta (è già stato diretto dal padre a tredici anni) con questo film. Incredibilmente sopravvive come una grande star al flop e all’odio che si è attirato dai fan del fumetto, e non solo: nel 2020 arriva con quella sorpresa che è I predatori dove dirige e si dirige. Nel 2021 il suo Cencio ruba la scena in Freaks Out di Gabriele Mainetti. È nata una stella. Ed è nata da qui, da umili origini.

La profezia dell’armadillo ha poi uno stile tutto suo e una visione ben precisa. Che poi sia discutibile e a volte profondamente sbagliata è un altro conto. Questo è un film che ha spinto tanto in alto per poi cadere molto in basso. È una scommessa non riuscita, fatta però con la voglia di fare qualcosa con una personalità definita. Servirà quella bellissima serie che è Strappare lungo i bordi per dare l’aspetto grafico e la voce giusta all’Armadillo. Un personaggio che funziona nei fumetti ma che, animato (o in live action), va gestito, limitato, bilanciato e tradito. Che l’Armadillo di Valerio Aprea sia un mostro inquietante, più demone che simpatica voce della coscienza, è un incidente di percorso non diverso da chi ha fatto un robot così realistico da fare paura.

Si legge Zerocalcare, ci si innamora della sua parlata romana, dei suoi personaggi e delle figure che popolano il suo mondo. Alla fine però quello che racconta sono sempre storie dure di realtà che impatta sull’anima mentre il corpo resta impassibile. Le figure caricaturali e gli animali della sua matita attenuano la crudezza della vita con un accento fantasy che viene dall’immaginario dei bambini, ma che infantile non è.

La profezia dell'armadillo

Invece l’unione tra live action e costumi enormi in gommapiuma o altri materiali sintetici fa un effetto retro anni ’90 a dir poco straniante. Ricordate la famiglia de I dinosauri? È esattamente quella botta visiva tra cringe e ammirazione per come si sia andati dritti senza accorgersi che si stava mettendo in scena una pessima idea.

Simone Liberati poi non è affatto un pessimo Zero, solo che Michele Rech (in arte Calcare) è il suo personaggio, e lui non è certo un Terrence Malick nascosto dentro le sue opere con l’ultima foto disponibile che risale a 20 anni fa. Prendere un racconto dai connotati fortemente biografici e imitare il ben noto protagonista sia nelle movenze che nella parlata, ha reso il film un esercizio di “tale e quale” che ancora una volta ha rotto un importante confine di immedesimazione.

Ed è un peccato perché la storia raccontata nel film – e nel fumetto – è tutt’altro che artefatta. Anzi, sarebbe arrivata anche ad essere toccante se la confezione in cui è inserita non avesse allontanato ogni possibile immedesimazione. Dove sta allora il problema? Si è tanto accusato il progetto in sé, i presunti tradimenti al fumetto, allo spirito che guida quelle tavole e alla sincerità che traspare dai dialoghi.

Eppure, e questo lo si è visto anche in Strappare lungo i bordi, Zerocalcare dà sempre l’impressione di un colloquio a due tra autore e spettatore. Se questo avviene non è perché si arriva all’essenza del racconto, ma perché al contrario il ritmo interno ai disegni è totalmente costruito e stilizzato (nel senso che ha uno stile inconfondibile). È pensato e bilanciato, non buttato giù di getto. E se dà quest’impressione è proprio perché, tramite un’ incredibile capacità psicanalitica della propria esistenza, Zero ha creato una perfetta illusione.

Non è quindi un problema di sincerità o di costruzione a tavolino di un film, ma di fedeltà e di sudditanza. Adattare in live action un fumetto non è un’operazione semplice e soprattutto, ce lo insegnano gli americani, non significa tradurre letteralmente. Che è un po’ anche l’errore che ha affossato Diabolik. Stessi pregi e stessi difetti: un’idea di atmosfera molto forte, uno stile riconoscibile, e grande fatica nell’appassionare, a risuonare emotivamente con lo spettatore.

La profezia dell’armadillo è così un calco fin troppo rispettoso della fonte, senza avere nulla del fumetto. Perché Michele Rech è stato praticamente messo da parte dopo avere dato un piccolo contributo in partenza seguito poi da cambi di registi e diverse stesure. Per lo meno stando a quanto raccontano le voci di corridoio, dato che sulla lavorazione del film sono state rilasciate ben poche dichiarazioni ufficiali. Le più significative sono quelle, in forma di fumetto, di Zero stesso e nei commenti.

Ma allora La profezia dell’armadillo è fedele sì o no? Lo è come può esserlo un calco su carta trasparente. Le inquadrature sono le stesse, così come le scenografie cartoonesche e i grotteschi personaggi che le popolano. Una tale sudditanza rispetto al libro che diventa pigrizia, che esprime una personalità forte, ma derivativa.

Strappare lungo i bordi non è molto differente da un collage di situazioni già viste nei fumetti. Eppure riesce a tradirsi nella forma, rispettandosi nel cuore.

Il più grande difetto de La profezia dell’armadillo non è non avere capito che i disegni su carta e i fotogrammi cinematografici sono due media diversi con parole, espressioni visive e ritmi differenti.  Quello, certo, è un difetto importante, ma non è il primo e non sarà l’ultimo a farlo. Il problema è di avere voluto trasportare altrove una poetica invece di portarla avanti. Magari tradendola un po’, magari trovando soluzioni visive diverse, per conservare intatto il tormento dei giovani di Rebibbia così unico e universale anche senza Armadilli di cartone. Si doveva schivare l’uncanny valley, per collocarsi in quel limbo che chiamiamo sospensione dell’incredulità, non trovarla e adagiarsi al suo interno.

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