Tra il Robin Hood di Erroll Flynn e quello di Kevin Costner c’è una prigione di differenza. Lo pensava, sul finire degli anni ’80, lo sceneggiatore Pen Densham. Il suo trattamento di 90 pagine presentato allo studio interpretava il racconto inglese in una chiave politica ed epica, fatta di crociate, popolazioni in fuga dalla guerra, criminali e macchinazioni dei potenti. 

Al centro un personaggio complesso, vulnerabile, un nobile che ha visto la guerra, è stato torturato, ha conosciuto persone “diverse” da lui come il saraceno Azeem, e ha scelto di stare dalla parte degli oppressi. Robin Hood: principe dei ladri è un riadattamento pieno di personalità e intenzioni differenti che a distanza di 32 anni appare posizionato nel crocevia tra l’interpretazione più oscura di Ridley Scott e la più classica e solare avventura per famiglie.

Il film è arrivato su Netflix e vale la pena rivederlo per sottoporlo alla prova del tempo.

Un kolossal dalle due anime

In ogni inquadratura di Robin Hood: principe dei ladri appare la voglia di fare un grande film. Con Re Riccardo lontano dal trono per la terza crociata, lo sceriffo di Nottingham può ordire le sue macchinazioni. Cerca alleanze nel regno e uccide Lord Locksley, padre di Robin, per non essersi unito al suo piano. Ad aiutarlo c’è una strega deforme che lo consiglia su come tenere sotto controllo un popolo indebolito e passivo. Perso tra le sue ricchezze lo sceriffo non si cura del ritorno a casa di Robin di Locksley, colui che inizierà una ribellione per preservare il regno.

Già dalla sinossi si intravede tutta l’ambizione del regista Kevin Reynolds di creare qualcosa di nuovo con uno sguardo maturo, credendoci tanto. Lo score di Michael Kamen accompagna l’arrivo dei guerrieri sulle coste inglesi prendendosi tutto il tempo necessario per comunicare la solennità del momento. Si bacia la terra, si contano le miglia che mancano a casa. Il paesaggio incornicia le figure umane cercando una grandissima concretezza e al contempo una bellezza irreale, da film fantastico.

Robin Hood: principe dei ladri è capace di costruire la tensione fino a un terzo atto di straordinario divertimento. La potenza visiva è fuori discussione. La fotografia si concede un’enfasi fuori scala solo per ottenere l’immagine più spettacolare. Kevin Costner riemerge dalla nebbia illuminato da una luce irreale alle sue spalle, creando una sagoma d’ombra gigantesca nell’aria. Scocca la freccia infuocata mentre dietro di lui l’arancio del fuoco riempie di colori lo sfondo. Poco dopo a Morgan Freeman, che interpreta un Azeem molto vicino a come sarebbe stato scritto dal cinema contemporaneo, viene concesso un monologo sulle mura alla popolazione.

Robin Hood principe dei ladri

Robin Hood: principe dei ladri mostra le sue incredibili ambizioni lasciandosi sfuggire di mano, talvolta, il proposito di un adattamento con i piedi ben piantati a terra. La seconda anima del film è infatti caricaturale, grossolana e cartoonesca. Un film ben più classico e per bambini di quello che alcune sue scene raccontino. Questo aspetto è incarnato soprattutto dai villain. Alan Rickman interpreta lo Sceriffo di Nottingham con intensità. Troppa, dato che il film dovette venire rimontato perché il suo villain oscurava l’eroe principale. 

I ruolo era stato offerto a Richard E. Grant e Rickman l’aveva rifiutato due volte. Quando gli fu concessa carta bianca sul personaggio accettò, cambiò alcuni dialoghi ed entrò nel film imprimendogli un tono acceso e molto diverso da quello che probabilmente era l’intenzione in sceneggiatura. È sua la battuta: “Locksley, ti strapperò il cuore… con un cucchiaio” messa tra un momento solenne e l’altro.

Un successo disprezzato dalla critica

Proprio per questa sua duplicità tra l’essere un film per bambini e una rilettura adulta del mito, Robin Hood: principe dei ladri ebbe alcuni problemi di rating e di critica. I primi derivano da alcuni contenuti al limite, come la tensione del terzo atto legata dal compiersi o meno di uno stupro (tagliarono la breve inquadratura dello Sceriffo che apre le gambe a Marion dall’edizione VHS). Ci sono amputazioni, morti, occhi cavati e una buona dose di sangue. I problemi con la critica si rafforzarono grazie a una polemica sulla dizione, dato che Costner aveva mantenuto il suo accento americano. In gran parte però le accuse più credibili al film erano altre. Si disse che era un bel contenitore senza un particolare contenuto, che prometteva tanto spessore e ne dava poco lasciando spazio all’azione.

Il pubblico del 1991 lo amò, premiandolo al botteghino. Robin Hood: principe dei ladri fu il secondo incasso di quell’anno dopo Terminator 2: il giorno del giudizio

Oggi Robin Hood: principe dei ladri conserva questa sua doppia natura di film che fatica a bilanciare i differenti aspetti della sua messa in scena: l’azione, il dramma politico e la (poca) complessità dei dilemmi che i personaggi devono affrontare. Buoni e cattivi sono divisi in maniera nettissima. Si sorride nella continua rivelazione di parentele verso finale e nel cameo di Sean Connery nei panni di Re Riccardo che fa di tutto per restare qualche secondo in più nell’inquadratura.

Al contempo, mentre lo si guarda, si prova una forte nostalgia verso un tipo di cinema che si vede sempre meno. Fatto cioè non solo da grandi mezzi ma da grandi pretese su se stesso. È questa la sua piccola vittoria con la prova del tempo.

Azeem direbbe: “non esistono uomini perfetti a questo mondo, solo intenzioni perfette“. Possiamo estendere la massima anche a questo Robin Hood: non tutti possono essere film perfetti, possono però avere intenzioni perfette. In questo caso: fare grande cinema, anche a costo di sbagliare.

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