Rush Hour – Due mine vaganti va in onda su 20 Mediaset questa sera alle 21:04 e in replica domani sera alle 23:28

Jackie Chan odia Rush Hour – Due mine vaganti. In realtà ha scarsa stima di gran parte della sua produzione americana, che ha descritto più volte come “qualcosa che faccio per tirare su i soldi per finanziare i film che voglio fare davvero”, ma il suo fastidio nei confronti del film di Brett Ratner è particolarmente curioso. Innanzitutto perché parliamo del suo primo film hollywoodiano da protagonista, un’occasione che lui stesso ha inseguito per anni e che arrivò grazie al successo internazionale di Terremoto nel Bronx. E poi perché Rush Hour rimane una delle buddy comedy meglio riuscite degli anni Novanta, arrivata un po’ in ritardo rispetto all’esplosione del genere ma capace di rinnovarlo e rinfrescarlo grazie a una buona dose di cattiveria e di steroidi.

Terremoto nel Bronx, girato tra Hong Kong e gli Stati Uniti e uscito nel 1995, è il film che convinse il mercato americano che valeva la pena recuperare la (al tempo già nutrita) filmografia di Jackie Chan, e soprattutto che convinse Brett Ratner che Jackie Chan si meritava un’occasione in America – non in un ruolo da villain, come quelli che gli erano stati proposti fin lì (si veda Demolition Man), ma in quello del protagonista. Co-protagonista, a dire la verità: scritto da Ross LaManna, che da allora ha dedicato la sua intera carriera al franchise, Rush Hour – Due mine vaganti è un buddy cop, come 48 ore, Arma letale o il 90% dei film scritti da Shane Black, e quindi prevede che al centro di tutto ci sia una coppia di poliziotti molto diversi tra loro – uno è Chan, appunto, l’altro è Chris Tucker.

 

Chris Tucker

 

Di più: Rush Hour è così tanto un buddy cop che Roger Ebert si inventò un nuovo termine per definire il genere – che purtroppo si basa su un gioco di parole intraducibile. La parola è “wunza”, che è la traslitterazione modificata di “one’s a…”, cioè “uno è…”: è il modo più semplice per descrivere questi film e la loro caratteristica fondante, e cioè “ci sono due personaggi, uno è [X], l’altro è [Y], dovranno superare le differenze e imparare a lavorare insieme”. Nel caso del film di Brett Ratner, la X di Jackie Chan è Lee, un detective di Hong Kong che vola negli Stati Uniti dopo che la figlia dell’ambasciatore, che è anche una sua ex allieva nella sua scuola di arti marziali, viene rapita; e la Y di Chris Tucker è James Carter, detective dell’LAPD che ama lavorare da solo e non è ben visto dal resto dei colleghi del dipartimento. Lavorare con Lee è la sua punizione per i suoi metodi poco ortodossi e la scarsa stima di cui gode presso i capi: ovviamente i due si scontreranno e pian piano si capiranno e infine trionferanno contro la cattivissima mafia cinese.

Non stiamo cercando di sminuire il valore di Rush Hour – Due mine vaganti, anzi; ci limitiamo a constatare quanto la sceneggiatura ricalchi con precisione e fedeltà assoluta i dettami dei classici venuti prima. Tutti gli archetipi sono al posto giusto, dal villain al minaccioso scagnozzo del villain, dal capitano della polizia tronfio e un po’ tonto agli agenti dell’FBI che guardano con fastidio alla presenza nella squadra di un semplice poliziotto locale e di un detective straniero venuto a pestare i piedi alle autorità americane. Quello che conta però è quello che si fa con il materiale a disposizione; e Brett Ratner, che al tempo era ancora solo un giovane promettente e non un molestatore seriale, fa la cosa migliore da fare quando hai a disposizione un comico di altissimo livello e uno dei migliori attori-atleti del mondo: ci mette tutta l’energia possibile.

 

Chris

 

Il rapporto tra Lee e Carter, cioè il cuore di Rush Hour – Due mine vaganti, è indicativo più di quanto non lo sia la comunque ragguardevole quantità di esplosioni che punteggiano le quasi due ore di film. Normalmente i “poliziotti diversi” in un buddy cop litigano, si scontrano, si giurano a vicenda di lavorare meglio da soli, poi alla prima occasione buona scoprono che anche l’altro ha qualcosa da offrire e iniziano il processo di avvicinamento. In Rush Hour, Jackie Chan e Chris Tucker se le danno di santa ragione per tutto il film, si inseguono, si menano, si sparano, si minacciano di morte, corrono in giro per la città incuranti del loro lavoro. Non stanno fermi un secondo e ci impiegano tutto il film, invece che solo il primo atto e mezzo, a trovare una quadra e il modo di collaborare attivamente.

È un trucchetto che funziona perché le differenze tra i due non sono solo, come capita spesso, etniche e/o di classe, ma culturali in senso più ampio: Jackie Chan interpreta anche il ruolo dello straniero in terra straniera, il cui spaesamento probabilmente potrebbe reggere il film anche in assenza di Chris Tucker. In un certo senso, Rush Hour è due film in uno: il primo è un buddy cop, il secondo è la versione thriller di Il principe cerca moglie, con una bambina da liberare invece di una principessa da sposare. Ratner abbraccia questa doppia assurdità dando libertà assoluta ai suoi attori, e se Chan la sfrutta soprattutto quando mette in scena le sue coreografie e i suoi “stunt senza stuntman”, Tucker si lascia ancora più andare e libera tutto il suo spirito di improvvisazione e il suo talento per la stand up. Arriva a essere persino eccessivo, con i suoi balletti e le sue faccette; ma forse è proprio quello il suo segreto, e il segreto di tutto Rush Hour – Due mine vaganti: la libertà di lasciarsi andare, fregandosene anche del rischio di apparire ridicoli, e godendosi le esplosioni.

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