Certamente lo schiaffo di Will Smith ai danni di Chris Rock è stato uno dei momenti più bassi e violenti della storia degli Oscar. Stiamo vedendo in questi giorni le conseguenze che il gesto avrà sulla carriera dell’attore e sugli Academy Award: chiaramente quei pochi secondi hanno messo in ombra l’intera cerimonia. Quest’anno non si è dibattuto dei premi assegnati, l’industria del cinema non è riuscita a celebrare se stessa, anzi, l’immagine che ne è uscita è tutt’altro che nobile.

Eppure gli Oscar hanno almeno un precedente ancora più imbarazzante, fastidioso e sconfortante. Bisogna risalire al 1973, quando Marlon Brando ricevette il premio come miglior attore per Il Padrino. Non andò a ritirare la sua statuetta; al suo posto salì sul palco Sacheen Littlefeather: una ragazza nativa americana istruita con precisione da Brando su come comportarsi.

Doveva rifiutarsi di toccare il premio che le veniva consegnato e avrebbe dovuto leggere un discorso scritto poche ore prima dall’attore. Otto pagine di un accorato discorso volto a sensibilizzare il pubblico sulla condizione dei nativi americani, una battaglia a lui molto cara.

Littlefeather riuscì però a parlare solo un minuto. Fu travolta dai una coro di fischi e dai “buu” delle star lì presenti, misti a qualche applauso. Addirittura, John Wayne furibondo dovette essere trattenuto da sei addetti alla sicurezza perché voleva andare da lei e allontanarla a forza dal microfono. 

La premessa del rifiuto

Quando parlò in mondovisione Sacheen Littlefeather aveva 27 anni. Aveva conosciuto Marlon Brando qualche mese prima. La ragazza lavorava in una radio locale di San Francisco e condivideva le battaglie condotte dai Nativi Americani tra gli anni ’60 e ’70 su temi come la rappresentazione nei prodotti audiovisivi e nello sport. Abitava vicino a Francis Ford Coppola e lo incrociava spesso. Un giorno si fece coraggio e gli chiese se Marlon Brando, che in quegli anni era molto in vista anche per le sue battaglie sociali, fosse autenticamente interessato ai diritti dei Nativi Americani. Coppola li mise in contatto e la ragazza ricevette una chiamata da Marlon Brando nella sua trasmissione radiofonica che le confermò le sue idee su quei temi. 

Nacque così un rapporto di amicizia con Littlefeather, che stava tentando anche una strada nel mondo della televisione e del cinema. Brando decise così di coinvolgerla nel suo rifiuto dell’Oscar (era favoritissimo per la vittoria) per portare l’attenzione mediatica ai fatti di Wounded Knee. In quei giorni l’American Indian Movement stava occupando la riserva del South Dakota in segno di protesta dopo l’uccisione di un uomo Sioux Lakota. Quello stesso luogo era stato oggetto, nel 1890, di un eccidio da parte dell’esercito Americano. Si chiedevano più diritti, un trattamento diverso e il rispetto dei trattati. Le proteste contro il governo federale e le sue politiche relative ai nativi americani furono però ignorate dai media che non diedero risalto all’importante azione che stava avvenendo.

L’atto politico agli Oscar costrinse la stampa a parlarne ma costò la carriera e la reputazione a Littlefeather. Vennero diffuse falsità sul suo conto. Subito dopo il suo intervento fiorirono le più svariate ipotesi: era tutta una messa in scena? Lei era un’attrice pagata o addirittura una stripper? Nulla di tutto ciò ovviamente, ma Hollywood le chiuse tutte le porte.

Che cosa accadde quella notte degli Oscar?

Oggi siamo abituati a discorsi di accettazione dallo stampo politico. Attori e attrici che usano il tempo a disposizione per sensibilizzare su temi a loro cari. Un atteggiamento di questo tipo è ben voluto dall’Academy che negli ultimi anni ha radicalmente aumentato la propria attenzione alla realtà, all’uguaglianza e alla rappresentatività delle minoranze.

Nel 1973 le cose erano diverse. Si vinceva il premio, si ringraziava e via. Si parlava del cinema, non di politica. Inoltre quello era il primo anno che gli Oscar venivano trasmessi via satellite fuori dagli States, con un’audience incredibile di 85 milioni di spettatori collegati. 

Poche ore prima della premiazione Littlefeather era stata a casa di Brando il quale le aveva affidato il discorso raccomandandole esplicitamente di non toccare a ogni costo la statuetta. Una volta iniziato lo show le si avvicinò il produttore della serata informandola che avrebbe avuto solo 60 secondi e che non avrebbe potuto leggere l’intero discorso. Dovette quindi improvvisare: salì sul palco rifiutando dalle mani di Roger Moore la statuetta, senza nemmeno sfiorarla. Si trovò di fronte una violenza insolita per gli Oscar, con il pubblico diviso che interruppe il suo discorso tra gli schiamazzi. Ma il peggio non venne ripreso dalle telecamere.

Il discorso

Riuscì a dire poche parole prima di venire interrotta:

Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e sono presidente del National Native American Affermative Image Committee. Questa sera rappresento Marlon Brando che mi ha detto di dirvi in un lungo discorso, che non posso condividere con voi per via del tempo, ma mi piacerebbe dare in seguito alla stampa, che con grande dispiacere non può accettare questo premio. Il motivo è il trattamento riservato agli indiani d’America di oggi dall’industria cinematografica e in televisione e con i recenti avvenimenti a Wounded Knee (…)

Finiti i 60 secondi Littlefeather fu accompagnata nel dietro le quinte mentre alcune persone imitavano i pianti stereotipati dei nativi americani durante guerra. Altri le mimavano i colpi di un tomahawk.

Ad accrescere quello che oggi sarebbe considerato un vero e proprio disastro per l’immagine dell’Academy fu uno stizzito Clint Eastwood che salì sul palco poco dopo e derise la ragazza. Prima di annunciare l’Oscar al Padrino come miglior film, eclamò:

Forse dovrei consegnare questo premio a nome di tutti i cowboy uccisi in tutti i western di John Ford nel corso degli anni.

Il discorso completo scritto da Marlon Brando, pubblicato nei giorni successivi dal New York Times, prendeva di petto i massacri della storia accusando i “trattati fraudolenti” mai mantenuti, con un invito a deporre le armi e a vivere in pace tutti insieme.

Fonte: Guardian

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