Soldado è su Netflix.

Taylor Sheridan aveva appena chiuso la sua trilogia della frontiera, e ha preso Stefano Sollima per continuare la storia di Sicario con il suo Soldado (da qualche giorno disponibile su Netflix). Il film di Denis Villeneuve del 2015, poi idealmente accompagnato dal riuscito Hell or High Water e da I segreti di Wind River, andava a raccontare i confini del mondo. Le barriere ne facevano da padrone: sia quelle fisiche, le dogane e i controlli da superare, che quelle morali. C’è sempre un limite che interessa Sheridan, un’azione oltre la quale non si può più tornare indietro, o una vita irreversibile.

Accompagnato dalla sua scrittura, il film di Sollima riesce a schivare tutti gli errori che poteva compiere in un’operazione del genere. Con un’incredibile sicurezza imprime un’identità fortissima e mai derivativa da quella più patinata e appagante del primo capitolo. Non c’è Roger Deakins alla fotografia, e manca lo scomparso compositore islandese Jóhann Jóhannsson. Prende le sue redini, con rispettosa aderenza, Hildur Guðnadóttir (che un anno dopo si farà conoscere al mondo con Joker). Non c’è Emily Blunt, ma solo la dualità virile di Matt Graver (Josh Brolin) e Alejandro Gillick (Benicio Del Toro) ad affrontare una missione più dura, cruda, diretta e rigorosa della precedente.

Sollima sporca l’inquadratura. Il direttore della fotografia Dariusz Wolski illumina la scena per dare l’impressione che non ci siano altre luci se non le poche che danno respiro nella notte lontana dalle città o quella acciecante del sole. Si recupera così un realismo mai estetizzante, ma duro ed essenziale. Lo stile emerge semmai dal montaggio, dalla continua alternanza di vuoti e pieni. Ci sono momenti di un silenzio estenuante, affiancati all’improvviso scoppio del caos. La terra e il sangue sporcano i vestiti, i proiettili danneggiano il metallo e infrangono i vetri. È un territorio fragile, in cui tutti cercano di essere il più duri possibile per sopravvivere.

 

Sicario day of the Soldado

 

Proprio come fa Isabel Reyes, interpretata dalla teen star Isabela Moner ben lontana dal suo ruolo tipo. Figlia di un potente boss del narcotraffico, viene rapita durante un’operazione segreta orchestrata dal governo degli Stati Uniti. Lo scopo è d’innescare una guerra interna tra i cartelli messicani, che dalla droga stanno spostando i loro affari all’immigrazione clandestina, ben più redditizia. Tra le persone che vengono aiutate a varcare il muro di confine ci sono anche alcuni terroristi. La lotta all’ISIS si mischia così con quella di frontiera. Per portare a termine questa azione, totalmente segreta e illegale, sebbene tacitamente guidata dai piani alti della politica, Matt arruola nuovamente Alejandro la cui famiglia è stata brutalmente uccisa da un uomo al soldo di Reyes.

Soldado non ha una trama semplice perché intreccia politica nazionale, propaganda, e protocolli militari di cui si apprende man mano che questi accadono. Non ci sono scene di exposition che allineano la quantità di informazioni note ai personaggi con quelle dello spettatore.

Inizia in medias res e continua così per tutto il tempo. Siamo a metà delle storie personali di tutti. Alejandro è nel mezzo di un processo di elaborazione del lutto e vendetta, Matt è catapultato all’interno dell’operazione, il governo ha delle esigenze elettorali e di ricerca del consenso che intuiamo senza che siano mai esplicite. Persino Isabel sembra avere intuito tutto ciò che le sta accadendo. Lo suggeriscono le poche domande che pone e il modo in cui tiene il suo sguardo pochi secondi di più del necessario sui militari. Ma come ha fatto? Non scopriremo mai se lei è solo una pedina o è a sua volta manipolatrice.

Tutto questo va contro ciò che il buon senso suggerirebbe a un regista al suo esordio nel mercato statunitense. Non segue la via già tracciata, non coccola il pubblico, non si china al film precedente. Una cosa però viene mantenuta ed espansa nel suo discorso strettamente metacinematografico: l’idea di sguardo onnipresente del sistema di potere.

 

 

Nel terzo atto di Sicario Villeneuve si avvicinava al Jonathan Demme del Silenzio degli innocenti. Lo scontro a fuoco nei tunnel è immerso nel buio. I militari passano alla visione notturna e agiscono in silenzio. Anche in Soldado (di cui si può vedere qui sopra una clip dell’incipit) la visione è aumentata oltre l’occhio nudo. Sollima abbonda di riprese aeree dove gli spazi sconfinati restituiscono un’impressione di infinito e di piccolezza dei pur maestosi elicotteri. Immagini così simili a quelle di Dune, ovviamente con soggetti in chiave fantascientifica, che dimostrano la grande capacità analitica, di lettura profonda delle decisioni poetiche, espressa dal regista. Sollima capisce, apprezza, e fa suo… a modo suo.

Oltre ai due uomini che portano avanti l’aspetto più action, c’è un terzo elemento che resta dall’inizio alla fine: il potere del governo. Una forza quasi divina che osserva, invisibile, dai satelliti. Se prima i soldati erano “aumentati” dal loro potere di visione che supera anche il buio, ora il governo sovrintende le vite anche fuori dai suoi confini. Per analizzare la scena del delitto vanno avanti e indietro nel tempo prendendo le registrazioni in altissima risoluzione degli occhi posti nello spazio. Gli elicotteri illuminano con raggi di luce i fuggitivi, sempre dall’alto al basso.

La conoscenza è quindi un processo diseguale, non permessa a tutti. Però le istituzioni si scontrano con un “difetto” di forma, più volte citato nel film. Sono quei confini tracciati sul terreno che limitano la portata del braccio armato. Sono anche le barriere morali oltre le quali bisogna andare nell’ombra. La nazione onnipotente e onnisciente si deve affidare ai fantasmi. Gente sul campo che nessuno conosce, uomini scomparsi che si mimetizzano assumendo altre identità.

Innamorato del western moderno d’azione, Soldado ne fa un affresco realistico. Abbondano i piani sequenza e la camera a mano, con fughe riprese all’interno dell’auto che richiamano per impatto quella de I figli degli uomini. C’è sempre un qualcosa di improbabile: personaggi che riescono a compiere imprese impossibili pur con un buco in faccia, cambi repentini dalla notte al giorno nel corso di una fuga, sparatorie ed esplosioni accentuatissime. Però, diversamente dal modello americano dell’action moderno, Sollima trova la chiave per introdurre la realtà nel suo film. Mantiene intatta la struttura adrenalinica che si richiede a un prodotto del genere, e poi carica di conseguenze sulle persone quello che succede.

Una testa che esplode colpita da un colpo di fucile, e schizza il sangue sul volto della ragazzina ostaggio, è un’immagine traumatizzante. Il fatto che lei, dopo questo evento, venga trascinata via senza dire niente e con gli occhi assenti in completo stato di shock, è una grande impronta autoriale. Sollima ha provato (il tempo dirà se ci è riuscito) a proporre una nuova letteratura dell’antieroe. Dove non si riflette tanto sul peso delle azioni, come nel film precedente, ma si mette in scena -senza possibilità di fraintendimento- le conseguenze che queste hanno sulle altre persone. 

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