Tra i candidati al miglior film degli Oscar 2023 Tár è quello che ha il villain più riuscito. O meglio, la villain: Lydia Tár. Una delle più grandi musiciste di quest’ epoca. Laureata ad Harvard, con un Ph.D in musicologia e una specializzazione nella cultura sonora del Perù. Allieva di Leonard Bernstein ha fatto la storia della musica. Universalmente apprezzata da pubblico e critica è una dei 18 vincitori dell’EGOT. 

Solo che Lydia Tár, che presta il cognome al titolo a quello che sembra un biopic a lei dedicato da Todd Field, non esiste. È un personaggio totalmente inventato. La sua vita è frutto di finzione e non è ispirata a fatti realmente accaduti. Prende spunto, questo sì, dai molti casi di uomini (e donne) affermati che hanno abusato del loro potere senza indicarne però uno nello specifico. 

È facile cadere in errore guardando il film e credere che la materia che tratta sia in qualche modo reale. È l’obiettivo di Field sin da subito, quando apre il film con una lunga intervista condotta dallo scrittore reale Adam Gopnik, nei panni di sé stesso, in occasione del The New Yorker Festival. Interminabile e stimolante come i reali incontri a teatro, la sequenza riproduce persino il sottile imbarazzo che si viene a creare per la presenza di un pubblico, con battute di spirito e risate esagerate.

La conversazione si concentra su temi di stringente attualità: come declinare al femminile i termini e i ruoli della musica? Quali possibilità di accesso hanno le donne verso le posizioni apicali? Che cosa trasmette la Sinfonia n.5 di Mahler e come parla alle emozioni del presente? Cate Blanchett dà volto e movenze alla direttrice d’orchestra con competenza. È questo un termine che ritornerà per tutta la visione: le scene sono popolate da gente competente, che sa quello che dice. Il film si fa così rincorrere per tutto il tempo. Ci si sente in debito di conoscenze. Sarebbe sbagliato pretendere di capire tutto per poterlo seguire, bisogna invece sentirsi un po’ estranei e distanti a questo mondo. 

Competenti sono anche gli attori che, fingendo di avere anni di esperienza e di studi musicali alle spalle, si muovono in un solco di realismo quasi documentaristico. Ridono per battute da addetti ai lavori, si offendono e si irrigidiscono per frasi lanciate nei dialoghi che noi non possiamo sapere che cosa evochino in loro. In questa atmosfera pazzesca che si viene a creare, Lydia Tár viene ritratta per molto tempo con misura. Poi, dalla metà in poi, diventa totalmente cinematografica, esagera un po’, e inizia a fare veramente paura.

Tár

Lydia Tár è la villain dell’anno

L’ultima della vecchia guardia, Tár è una donna in estinzione. Una che fa le cose al vecchio metodo, che ha ottenuto il potere e lo gestisce come farebbe sopra un podio di conduzione: muove le mani e pretende che tutto reagisca di conseguenza. Manipola per ottenere ciò che vuole. È in totale controllo della sua vita. O meglio crede, dato che si scontrerà contro un nuovo clima culturale, assurdo, grottesco, eppure capace di ristabilire la gerarchia di potere e rompere una catena di abusi da lei perpetrata, non è dato sapere con quanta consapevolezza.

Ogni errore, ogni cattiveria di Lydia Tár è sotto gli occhi di tutti. Umilia uno studente “troppo ansioso di essere offeso”, altera i risultati di selezioni al buio solo per assecondare i suoi desideri erotici, sposta di ruolo le persone che non le vanno più a genio. Quando viene a galla un passato controverso di intricate relazioni, occulta prove e ostacola le indagini. Lo fa con lo sguardo alto, con la voce sicura e metallica, come un robot (che tanto spesso cita) e come una predatrice nel pieno del suo potere. Eppure, più le stiamo accanto, più ci troviamo a comprenderla.

Non necessariamente si tratta di approvarla, sebbene molti dei temi lanciati dal film si prestino a un dibattito non di facile soluzione, Tár come personaggio si rivela essere moralmente negativa, senza alcuna scappatoia. Eppure perché ci sembra, alla fine, così vittima?

È merito della maestria di una scrittura coraggiosissima, che rema in senso contrario rispetto alla Hollywood di oggi. Tende a complicare le cose, a non dare risposte posizionandosi nella zona più ambigua possibile: ovvero quella grigia, che è anche la più stimolante intellettualmente. Le certezze appartengono solo alla didattica o alla propaganda. Fields invece cerca il sentimento opposto: non saper cosa pensare, tanto da essere contenti di non dover fare da giudici a questi personaggi! Un sentimento raro.

Il potere logora anche chi se lo merita

Tàr è una parabola del potere. La direttrice d’orchestra perde il controllo sulla sua immagine pubblica e su tutto il resto all’improvviso. Avviene in modo lento e rigoroso: ogni scena colpisce i protagonisti con un dilemma che anima il dibattito artistico contemporaneo. 

Si parte con il ruolo delle donne in posizioni in cui fino a poco tempo prima erano precluse o minoritarie. Segue la cancel culture e l’unione tra arte e giudizio morale sulla persona che la crea. Continua con le esclusività culturali (perché un non ebreo dovrebbe essere interessato in musica ebrea?). Poi ecco una carrellata di favoritismi contro il puro talento, di marketing contro la genuina creazione. Tàr usa come pretesto per un licenziamento un consiglio musicale sbagliato in fase di registrazione, un dettaglio di perfezionismo salvo poi voler ricevere solo il file compresso della registrazione che passerà sulle piattaforme streaming. Dedica un sacco di tempo alla vanità della copertina del disco, e a un libro autoriferito “Tár on Tár”. L’arte più colta è anche la più isolata e chiusa in se stessa? Il film si chiude in chiave più decadente e pessimista di quanto sembri all’inizio.

Tár film

Man mano che la rigida direttrice d’orchestra affronta queste domande, inizia infatti a crollare una struttura di forza che la proteggeva. L’arte diventa marginale, lo scandalo prende il sopravvento. Interessante la decisione di far accadere tutto questo ad una donna. Non è a caso in contro tendenza rispetto agli scandali reali che hanno colpito soprattutto gli uomini. Perché qui non si punta il dito contro uno specifico sintomo, si indaga la malattia, e questa non fa distinzione.

Cosa resterà di Tár dopo gli Oscar 2023?

Cate Blanchett fa un’interpretazione tra le migliori della sua carriera. Il film è difficilissimo, personalmente lo trovo il più duro tra i candidati a miglior film. Però è così impattante grazie alla sua grande ambizione tematica, il suo affrontare senza semplificare questioni urgenti costringendoci a fingerci un po’ intellettuali a nostra volta.

Sarebbe da pazzi imitarlo. Giocare cioè con le certezze, dedicare due ore e quaranta minuti a un personaggio che ricorda tanti altri di cui Hollywood non vorrebbe più sentir parlare. Provare come ha fatto Field a osservare senza giudicare, equivale a giocare col fuoco. È un attimo bruciarsi, sbagliare un dialogo o una scena, e prestare il fianco a fraintendimenti del proprio obiettivo di ridare complessità a un dibattito fatto oggi soprattutto di opinioni nette.

Il piano sequenza in cui Tár distrugge un ragazzo che liquida Bach come un “maschio bianco cisgender” è di una potenza inaudita. Prima lo massacra a parole poi interpretandogli il brano addosso, lo suona con passione, lo fa sussurrare al suo orecchio, lui si emoziona in modo quasi peccaminoso e se ne vergogna perché va contro la sua morale.

Il resto di Tár si dimenticherà. Questa scena continuerà ad essere vista e condivisa a lungo. Fino a che ce ne sarà bisogno.

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