C’è un uomo senza volto che protegge un bambino scorrazzando in lungo e in largo tra le galassie. Si affezionerà a lui tanto da instaurare un legame forte, quasi paterno. I due cresceranno insieme: il guerriero duro, fatto di acciaio Beskar, troverà il coraggio di togliersi la maschera e riscoprire la propria carne sotto l’armatura. Uno scambio equo: la salvezza della creatura straordinaria, inconsapevolmente ripagata da un cambiamento radicale della propria persona. La scoperta di un’umanità che ridà vita. Stiamo parlando ovviamente del concept di The Mandalorian, una delle espressioni più significative della direzione intrapresa dall’audiovisivo nel raccontare la genitorialità. Una visione dell’essere padri e figli complessa, stimolante, sorprendente in un prodotto di così ampio raggio!

In effetti chi, se non il mondo di Star Wars, poteva iniziare una nuova tendenza narrativa basata proprio sulla definizione del genitore attraverso gli occhi del figlio? La riflessione attraversa infatti sia il cinema e la tv mainstream che le opere più ricercate, le protagoniste dei grandi premi. Ma come ha rimasticato il cinema questa idea? Negli ultimi anni la riflessione si è spostata dal concetto di famiglia alla condizione dell’essere genitore. Ha ribaltato il punto di vista e ha trovato un grande interesse drammatico.

Già la Marvel ha basato gran parte della fase due e tre proprio sul conflitto padri e figli, quasi esaurendo il discorso. Non un banale legame di sangue, ma una condizione più complessa tra possibilità di generare, voglia di prendersi cura e affetto. Solo qualche esempio: Groot è come un figlio per Rocket (che probabilmente non può riprodursi, dati i tanti esperimenti condotti sul suo corpo). Star Lord deve uccidere il proprio genitore\Ego per liberarsi di lui (con un ulteriore strato di significato freudiano dato proprio dal nome del villain). Tony Stark si incontra faccia a faccia con Howard, in una piega del tempo, per provare a comprenderlo e quindi a conoscersi. Soprattutto ora che, a sua volta, è genitore. T’Challa riceve un’eredità pesante, quella di Re, allo stesso modo in cui Thor e Loki devono far quadrare le aspettative di Odino e di Asgard.

Il cinema d’autore ha poi ribaltato il discorso. Come se si fosse già detto tutto da quella particolare prospettiva. Ha fatto un contro campo nel punto di vista; oggi si indaga la condizione dei figli, il modo in cui guardano l’altro, per capire cosa significa essere padri.

Nel già citato The Mandalorian c’è un notevole scambio di esperienze tra i due personaggi che comporta una crescita reciproca. Tutto fatto senza – troppe – parole. Non è vero che solo il padre cresce nel confronto con il figlio. A Grogu viene richiesto uno sforzo particolarmente adulto. Deve adeguarsi a un mondo pericoloso, trovare modi per comunicare ed esprimere i suoi desideri, e soprattutto affidarsi. Stare nelle mani di uno sconosciuto che come unico volto ha un metallo che riflette l’immagine di chi gli sta vicino. La definizione iconografica dell’assenza di personalità per eccellenza. Invece Din Djarin, il protagonista di The Mandalorian una personalità ce l’ha eccome. Viene scavata man mano proprio da quell’esserino verde che porta in braccio. Prima e dopo l’incontro con Grogu, la trasformazione da pistolero senza emozioni, quasi indistinguibile dai robot, a persona.

Oltre The Mandalorian: il cinema “impegnato”.

Il più grande exploit di questa idea è stato il celebratissimo The Father. L’opera prima di Florian Zeller è interamente dedicata a un padre (Anthony Hopkins) che si sta lentamente spegnendo e la figlia (Olivia Colman) che si prende cura di lui. Il rapporto è asimmetrico. L’anziano sembra un figlio, non un genitore. Merito soprattutto della straordinaria performance dell’attore, che in una drammatica scena appare così fragile da ricordare un bambino in difficoltà. C’è qualcosa di naturalissimo però in tutto questo. È il tema della cura, della fragilità che viene accolta non solo da chi la vive, talvolta senza consapevolezza, ma da chi assiste. 

Un legame che potremmo definire “razionale” si è rotto. Non c’è più possibilità di scambio alla pari, di confronto o di reciproco aiuto. Sopravvive però un qualcosa di più forte, ed è una dedizione esclusivamente “emotiva” e genuina. Aiutare il genitore a realizzare se stesso anche quando è perduto, o in fondo alla vita, è un atto di gratuità. Guardando la sua fine, tendendogli la mano, il figlio non si emancipa dalla sua condizione. Al contrario porta a compimento il suo ruolo, che lo voglia o no. Questo sguardo interessa moltissimo il cinema, ed è facile capire perché: è complessissimo, sfumato, pieno di dolore e spesso di sollievo. Si tratta di uno scambio tra padre e figlio (o figlia, ovviamente) conflittuale e quindi perfettamente narrativo. 

 

Falling Padre the mandalorian

L’esempio più recente: Falling

Viggo Mortensen ha fatto un’operazione molto simile in Falling – Storia di un padre. Un uomo scontroso, un po’ per carattere un po’ per malattia, è accudito dal figlio. Vedersi, incontrarsi, conoscersi e infine perdonarsi. A differenza dell’Anthony di The Father, Willis (Lance Henriksen) non è mai stato un genitore presente. Vive in costante conflitto con la sua famiglia, e quindi anche con se stesso. La vecchiaia non è clemente con lui. Ha dolori fisici, ed evidenti segni di perdita cognitiva. È in balia del vento, che lo trascina via come foglie. Strati di maschere lunghe una vita che si staccano, rivelando la vera anima.

Il figlio John lo ospita in casa per qualche giorno, prima di trovare una sistemazione definitiva. Si trova davanti una persona messa a nudo dalla malattia, rancoroso verso la moglie da tempo scomparsa, incapace di accettare il fatto che John sia sposato con un altro uomo. Perso nei ricordi espia la sua colpa: quella di non esserci stato, di essere stato incapace di accettare la propria felicità rifiutandola. 

In Falling Viggo Mortensen, attore e regista del film, è molto generoso: capisce la straordinaria performance di Lance Henriksen e si avvicina con la cinepresa, lo lascia esprimere tutto il suo dramma interiore. Il senso del progetto si ritrova però nello sguardo del figlio: talvolta cerca di guarire le ferite inferte dai discorsi del papà usando come cerotto l’orgoglio di una persona adulta. Altre volte lasciando trasparire la pena per la persona che l’ha generato e da cui si è finalmente emancipato. 

Padri in viaggio e scomparsi

Falling fa un po’ come Alexander Payne ha fatto con Nebraska: un uomo anziano è convinto di avere vinto un milione di dollari. È chiaramente vittima di una truffa, ma il figlio decide di dargli corda e accompagnarlo nel viaggio per reclamare il premio. Girato in un bianco e nero che ci porta nella prospettiva dell’anziano (Bruce Dern), sia per stile di ripresa che per quantità di tempo dedicatogli. Nebraska vive però delle reazioni del compagno di viaggio (Will Forte). Ogni pensiero trattenuto è un’informazione sul passato dei due, così come lo sono gli appunti, i piccoli fastidi e le idiosincrasie che ci suggerisce senza spiegare completamente. Frutti di un tempo passato.

Anche in Un figlio di Mehdi Barsaoui, film presentato a Venezia nella sezione Orizzonti e in arrivo nelle sale il 21 ottobre, la riflessione drammatica sulla genitorialità è innescata da un elemento “esterno” alla famiglia. Una volta incontrato tutte le certezze crollano come un castello di carta.

Un proiettile entra nella carne di un bambino danneggiandogli il fegato. Per salvarlo occorre un trapianto urgente. Fatti i dovuti accertamenti sulla compatibilità dei genitori, gli esami restituiscono una sconvolgente notizia: Fares non è il vero padre del piccolo. Da questo spunto il film inizia il suo cammino alla scoperta di una nuova condizione che ristabilisce le regole interne alla famiglia. Un cambiamento drastico che Aziz, in coma per le ferite riportate, potrebbe non scoprire mai. Come in The Mandalorian l’essere padre si slega da un fattore di sangue e si declina nel prendersi cura di qualcuno diverso da sé, nell’altro.

 

Parasite padre The Mandalorian

 

Il finale di Parasite è un’anomalia nella struttura del film. Tutto è concluso, le trame della famiglia Kim sono complete. Bong Joon-ho ci concede un balzo in avanti di qualche anno. Il padre è disperso, forse morto nella colluttazione nella villa dei Park. Mentre osserva la casa, il primogenito della famiglia povera si convince che Ki-taek sia ancora lì dentro. Formula quindi il proposito di studiare in università, avere successo, soldi, e comprarsi la casa per liberare il genitore. Un sogno, in una Corea classista e divisa. Un trionfo di un papà che continua ad essere presente nell’assenza, che come un fantasma che ritorna nei desideri della prole.

Il grande dono che gli ha fatto è quello di aver messo dentro di loro un germe, un parassita appunto, che è anche la voglia selvaggia di riscatto e di un futuro migliore. Alla fine del film lui è quello che resta e si moltiplica. È una presenza concreta che possiamo scorgere in un’altra persona.

C’è un grande cambiamento in atto nel modo in cui il cinema sta raccontando l’essere padri. In un’industria ancora fortemente connotata da una presenza maschile, è probabilmente questa la principale ragione per la schiacciante inferiorità numerica delle storie di madri. Quando le opere popolari, dal grande budget e dal pubblico vastissimo, hanno affrontato il tema con cura e inventiva, il cinema “impegnato” ha cambiato il proprio oggetto di analisi mettendo a lucido il linguaggio con cui racconta ogni tipo di paternità.

Che sia una genitorialità di sangue, o semplicemente affettiva e di cura, questa si definisce dalla prospettiva contraria. Lo fanno con gli occhi di chi è stato cresciuto e accudito e lo rendono protagonista. La vita di un uomo è riassumibile attraverso lo sguardo di un figlio o una figlia mentre li accompagnano negli ultimi istanti, o mentre li cercano, per permettergli di diventare ciò che sono chiamati ad essere.

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