Puntare verso il basso, scavare, buttare addosso agli altri tutte le nefandezze che vengono in mente, ma farlo bene, con stile e consapevolezza. È questo l’abisso che passa tra il primo Una notte da leoni e i suoi seguiti, ed è anche ciò che rende la trilogia di Todd Phillips il simbolo di un’epoca di trasformazione della commedia americana. Imitabile, imitato, nessuno è riuscito a replicarlo.

In che campionato gioca Una notte da leoni? Come sconcezza delle battute e delle situazioni, Todd Phillips resta nel suo Road Trip, guarda alle commedie come American Pie, e quelle allucinate (Superbad, Strafumati). I soggetti sono adolescenti troppo cresciuti, che si divertono come ci si diverte a quell’età anche se sono su una soglia: l’età adulta sta arrivando. Come quantità di battute riuscite, come messa in scena e costruzione, Una notte da leoni compete però con il grande cinema comico. Quello consapevole, fatto da registi di spessore che rispettano ogni risata. Il Golden Globe come miglior commedia fu meritatissimo.

Un’idea nuova in un soggetto abusato

Il film è una commedia vista mille volte. C’è un addio al celibato, c’è Las Vegas, c’è l’intenzione di sfasciarsi. Basta un’idea grandiosa in sceneggiatura per renderlo però diverso da tutti gli altri. La festa, quindi il momento più interessante, quello per cui si paga il biglietto, viene completamente tagliato dal film e dalla memoria dei suoi quattro personaggi (e tre protagonisti). 

Doug, il futuro sposo, è scomparso. Gli amici iniziano quindi una corsa al contrario nella loro serata per capire cosa sia successo e contro il tempo per trovarlo e portarlo sull’altare. Il devasto e le conseguenti risate sono tutte da ricostruire. 

Una commedia volgare ben fatta che nessuno si aspettava. Quello che prometteva di essere un filmaccio era fatto invece con una gran fotografia, un bel montaggio, e degli attori che sapevano di serie A, ma che recitavano come serviva alla storia, ovvero da serie B.

Todd Phillips lanciò tre carriere: Ed Helms veniva da The Office. Il suo Andy Bernard aveva faticato all’inizio, ma era poi risalito dalle riserve alla squadra titolare con qualche aggiustamento caratteriale. Però il cinema lo adottò come comico da grasse risate solo dopo aver visto le sue gesta nei panni di Stu Price. Suo fu l’onore di rilanciare National Lampoon’s Vacation nel 2015 con Come ti rovino le vacanze.

Zach Galifianakis girava da un po’ nel cinema indie. Era già stato in un film simile l’anno prima: Notte brava a Las Vegas. Niente di che. È un attore brillante, che va contenuto. Impossibile non costruire i suoi personaggi sul suo corpo, quando però si lascia anche uno spazio al carattere, Galifianakis è capace di incredibili performance. In Una notte da leoni è lui che più fa piegare dal ridere. Nei due seguiti è gestito male dalla sceneggiatura. Sempre più centrale, perde il ruolo di spalla e viene quindi azzoppato come potenziale gag improvvisa, arrivando persino ad annoiare.

E poi c’è Bradley Cooper. Il più noto dei tre all’epoca. Volto traino del gruppo, ha fatto un salto laterale: dalle commedie rosa a quelle goliardiche. Per tutto il film dà l’esilarante impressione di essere fuori posto, come personaggio e come attore. Per questo funziona alla grande.

Una notte da leoni

Il primo film da leoni, il secondo…

Il problema è che, quando incassi 469 milioni di dollari con un film come questo, c’è poco da fare. Si mette in pista un sequel e tutti devono starci. Ma l’idea alla base, che si è esaurita nell’arco di un paio d’ore, non è replicabile, solo moltiplicabile. Per quanto odiate, la parte due e la parte tre fanno il loro mestiere. O meglio, seguono l’unica via che potevano tentare a questo punto.

Il secondo film prende la formula vincente e la aggiorna portandola ancora più all’estremo. Esattamente come chiedeva la produzione e come il pubblico si aspettava. Una notte da leoni 2 è goffo nel provare ad essere di più, senza essere diverso. Più irriverente, volgare, scorretto rispetto a un film che già lo era moltissimo, ma con le stesse battute. Ci sono gag che starebbero bene negli extra con le scene scartate del primo o tra i cut alternativi.

Il terzo capitolo è invece Todd Phillips che fa quello che gli pare. Non fa ridere. Però l’azione è girata bene. Ci sono rapine e sparatorie e un senso di malinconia che rendono il film originalissimo nell’atmosfera, deludente nella riuscita. Come biasimare un regista che palesemente non voleva più essere lì, costretto dalle vagonte di soldi che aveva portato il secondo film? Parliamo di quasi 600 milioni! Il terzo ne incassò quasi la metà. Si erano stufati loro, si era stufato anche il pubblico. Tutto nell’arco di pochissimi anni.

Dopo Una notte da leoni

Una notte da leoni fu la pietra tombale per la comicità da addio al celibato. Ci furono alcuni tentativi di replica (Crazy Night – Festa col morto) senza ugual successo. La trilogia aveva stimolato però a cercare le risate sguaiate mantenendo anche una presentabilità stilistica. Quella patina ricercata del film di Phillips. Così Ted si presentava come un raffinato film scurrile. Fu promosso mettendo in evidenza il suo autore, Seth MacFarlane e i due attori: Whalberg e Kunis. Della serie: si ride da idioti, ma con stile. 21 Jump Street era pieno di idee sia per convincere il pubblico a pagare un biglietto (la nostalgia rivista in chiave moderna) che per tenerlo attaccato allo schermo. Meno riuscita, ma sempre con un’efficace aggancio di trama, la serie dei Cattivi Vicini. La regola quasi per tutti è: il primo film funziona, il seguito fatica.

Il merito di Una notte da leoni è che, contrariamente al suo aspetto scomposto, era bilanciato al millimetro. Lo si nota guardando i seguiti squilibrati: Mr. Chow prende troppo possesso del film, le situazioni che passano dall’essere surreali (cantare In the air tonight con Mike Tyson) a irreali (la decapitazione della giraffa). Idee ripetute fino alla noia pur di diventare tormentoni. Resta la comicità dei corpi marchiati, mischiati, distrutti, ma non scandalizza (né stupisce) più nessuno.

Però se di tre film due sono dimenticabili, quell’uno che resta è ancora un toccante elogio dell’oscenità. È street food servito su un piatto d’argento e con del vino pregiato come accompagnamento. È un’esperienza rara di come anche il cinema basso possa essere fatto bene. Solo chi ha proprietà del linguaggio, una sua poetica e qualcosa da dire può raccontare con questa sapienza l’ignoranza. Ricordiamocelo.

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