Van Helsing va in onda su 20 Mediaset questa sera alle 21:05 e in replica domani sera alle 23:32

Ci sono film brutti che sono talmente brutti che fanno arrabbiare. Altri invece che galleggiano in una mediocrità così dimenticabile che non sapremmo citarvi neanche un titolo. Ci sono film fatti male per mancanza di mezzi, altri per mancanza di idee, ci sono persino film fatti male apposta, nel tentativo di emulare un’estetica che funziona solo quando è spontanea. E poi ci sono film come Van Helsing: un disastro, senza alcun dubbio, ma al quale è difficile non volere almeno un po’ di bene, almeno se nel 2004, quando uscì, eravate ancora in piena adolescenza e l’idea di cambiare nome all’anziano Abraham Van Helsing e trasformarlo nel protagonista di un action alla Devil May Cry vi sembrava degna dell’Oscar e pure di un Nobel per la letteratura.

Comincia tutto con quei primi dieci minuti circa tutti in bianco e nero: in teoria, Van Helsing dovrebbe essere un omaggio agli horror Universal degli anni Trenta e Quaranta, dei quali il regista Stephen Sommers è un grande fan; in pratica, l’omaggio si esaurisce in questa allucinante introduzione nella quale vengono gettati in campo immediatamente sia il dottor Frankenstein e la sua creatura, sia Dracula e le sue tre mogli.

 

 

È una scena assurda, anche inaspettata, un trionfo di overacting e di angoli di ripresa bizzarri, con un Dracula (Richard Roxburgh) teatrale e quasi cabarettistico e un generale trionfo di primi piani di gente con la faccia deformata (dalla rabbia, dal dolore, dall’odio). È anche una dichiarazione d’intenti: nel 2004 non esistevano ancora gli universi condivisi e la serializzazione della narrazione, per cui Sommers, per far capire che il suo film parla dell’universo cinematografico dei mostri Universal, li sbatte tutti insieme nella stessa inquadratura, e si inventa una storia nella quale Dracula vuole rubare i segreti professionali al dottor Frankenstein per riuscire a resuscitare la sua progenie, che gli nasce regolarmente già morta (guarda un po’), e la chiave di questa epifania è ovviamente il mostro di Frankenstein

Dopodiché arrivano i colori, e Sommers smette di far finta di voler rifare i vecchi horror anni Trenta e si risintonizza sullo standard action-caciarone carico di effetti speciali che aveva fatto la sua fortuna nei primi due capitoli di La mummia. E siccome nel 2004 Hugh Jackman era ancora uno Wolverine caldissimo, la sceneggiatura di Van Helsing lo trasforma non in Abraham Van Helsing, l’esperto olandese di vampiri del romanzo di Bram Stoker, ma in Gabriel Van Helsing, un trovatello adottato dalla chiesa cattolica che l’ha addestrato a diventare un cacciatore di demoni, mostri e vampiri: in pratica Buffy con un pesante sottotesto religioso. Lo incontriamo vestito da protagonista di Bloodborne in questa scena nella quale combatte contro Mr. Hyde con la voce di Hagrid: se non vi basta come dichiarazione d’intenti non sappiamo come fare con voi.

 

 

Se Van Helsing finisse qui saremmo già a posto: nel giro di venti minuti Sommers riesce a reinventarsi la versione più idiota possibile di una serie di storici personaggi della letteratura horror, e a calarli in una serie di sequenze action spettacolari nella loro concezione, ma appesantite da una certa tendenza a scurire ogni frame fino a rendere indistinguibili i dettagli, e da una CGI che con gli anni non è andata certo migliorando (e già al tempo lasciava parecchio a desiderare). Ma Sommers è un ingordo, e dopo averci fatto assistere a quella che di fatto è una rissa tra Hugh Jackman e un gorilla mutante che una volta era un rinomato scienziato decide di pigiare ulteriormente sull’acceleratore, e far volare Van Helsing fino in Transilvania, dove dovrà trovare e uccidere Dracula e contemporaneamente proteggere gli eredi della più potente casata locale, minacciati proprio dal vampiro per eccellenza. Giusto per non farsi mancare nulla, e spuntare un’altra voce dall’elenco, uno di questi due eredi viene quasi subito trasformato in un lupo mannaro.

L’altra, quella che rimane umana, è un altro elemento che indica senza alcun dubbio che il film è stato girato nel 2004: Kate Beckinsale, reduce da Underworld e quindi dalla consacrazione come uno dei volti ufficiali di un’ondata di film a cavallo tra fantasy, horror e action che proliferavano in quegli anni. Van Helsing deve molto ad Underworld, e non solo perché condividono una protagonista: erano anni nei quali la figura del vampiro stava tornando di moda e cominciava a trovare spazio anche al di fuori della nicchia horror per allargarsi a opere più potabili per il grande pubblico, anni gloriosi peraltro stroncati dall’arrivo di Twilight, ma questo è un altro discorso. Quello che ci interessa è che Kate Beckinsale c’era, e Van Helsing ne è la dimostrazione: lungi dall’essere solo la spalla femminile del protagonista, la sua Anna si ritaglia un ruolo di tutto rispetto all’interno di questa storia assurda che prevede tra l’altro la presenza di un frate inventore squinternato e di un quadro animato che declama profezie.

 

Van Helsing Dracula

 

A fronte di tutto questo sgangheratissimo insieme di spunti, che Sommers tiene incollati con lo sputo e dando sempre l’impressione di essere a un passo dal perdere il controllo della situazione, è anche inutile spiegare di preciso di cosa parli il film: Van Helsing è prima di tutto, soprattutto, forse solamente una sequenza di scene action, combattimenti, inseguimenti e viaggi attraverso portali dimensionali, con qualche dialogo di raccordo che prova a spiegare la situazione qui e là. Non ha molto senso, e spesso non è neanche girato bene, con Sommers che perde il controllo dell’immagine e risolve tutto con un montaggio ultrafrenetico da primi 2000. Ma è ben interpretato, con Jackman e Beckinsale sorprendentemente in parte (sorprendentemente non perché non sappiano fare il loro lavoro, ma perché il materiale è quello che è) e alcune soluzioni, narrative e visive (a costo di ripeterci, le tre mogli di Dracula…), di un cattivo gusto adorabile e contagioso. E soprattutto non gli manca il ritmo: non passano cinque minuti senza una trovata di qualche tipo o un cambio d’ambientazione. Brutto sì, noioso no: siamo sicuri che Stephen Sommers lo prenderebbe come un complimento.

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