Peter Bogdanovich nella sua vita è stato un regista ma prima di tutto un grandissimo cronista di cinema e poi uno storico del cinema americano. Uno così importante e influente da essersi guadagnato anche la stima di Quentin Tarantino, qualcuno che non è proprio facile da conquistare sul terreno della storia del cinema (Tarantino l’ha voluto come doppiatore di una voce registrata in Kill Bill 2 perché sapeva che in tutti i film di Bogdanovich lui fa le voci registrate; Bogdanovich l’ha voluto nei panni di se stesso alla fine di Tutto può accadere a Broadway mentre sciorina conoscenza del cinema). Da cronista era diventato regista nel momento in cui era più semplice per un cinefilo accedere ad Hollywood, la fine degli anni ‘60. L’immagine che ci arriva di lui oggi è quella dello studioso, cosa che in parte è stato, del giornalista grigio e scrupoloso, cosa che in parte è stato, e meno quella sregolata, competitiva e dura che gli è valsa la possibilità di realizzare grandi film. Che poi è quella che emerge dai racconti di Peter Biskind. Una visione, vale la pena precisarlo, che Bogdanovich ha sempre rigettato come fandonie ma che nondimeno è frutto di centinaia di interviste a tutte le persone che hanno vissuto gli anni della New Hollywood.

Bogdanovich era un cinefilo da 400 film l’anno in un periodo in cui i film sì potevano vedere solo in sala. Il suo ingresso nell’industria avviene quando inizia a scrivere per Esquire, aveva fatto colpo sul direttore con la sua conoscenza del cinema e questi l’aveva incaricato di fare il reporter da Hollywood, all’epoca significava stare sul set di Gli uccelli mentre Hitchcock lo girava o stare su quello di El Dorado mentre Hawks lo girava. Eppure i grandi registi Bogdanovich li aveva conosciuti ai buffet della Director’s Guild of America, si riforniva anche tre o quattro volte il piatto e lì aveva fatto amicizia con gente come Jerry Lewis o Fritz Lang. A loro Bogdanovich piaceva perché era un vero appassionato, sapeva tutto di loro, era un tipo di cinefilo nuovo, come non se ne erano mai visti (alla francese, diremmo noi, figlio della cinefilia di Truffaut, Godard e soci) ed erano lusingati dalle sue attenzioni e dai suoi articoli su di loro, che erano sì maestri ma in molti casi in disarmo. Lusingati al punto che Jerry Lewis gli aveva regalato una delle sue Mustang (ma quella senza il telefono dentro “a te non serve un telefono nell’auto”) e Fritz Lang lo invitava a colazione ogni domenica. Era intimo anche di Howard Hawks e John Ford, di Jean Renoir e Cary Grant, Don Siegel e Irene Selznick. A detta di Polly Platt, fidanzata di Bogdanovich dell’epoca, lui era totalmente succube di queste personalità di fronte alle quali era pronto anche a rinnegare o tacere le proprie idee politiche.

Peter Bogdanovich, grande cronista di cinema

Era forse il cronista di cinema più importante e interno al sistema dei suoi anni. Di certo il più competente. E proprio per questo ad una proiezione di La grande peccatrice di Jacques Demy qualcuno gli presenta Roger Corman, seduto dietro di lui. Corman conosceva la sua firma dagli articoli di Esquire e gli propone così di scrivere anche film, con quell’entusiasmo caotico e la passione per nomi nuovi e esordienti di Corman. Partì con 22 settimane di lavoro su I selvaggi. Iniziò facendo le lavatrici e finì a dirigere il film (che comunque rimane attribuito a Corman stesso). Fu la pellicola che rese Peter Fonda famoso. Da lì venne la volta del suo primo film da regista, sempre con Corman dietro e Boris Karloff tra gli attori. Era il 1968, si intitolava Bersagli, la storia di un cecchino in un film che faceva exploitation di alcuni fatti di cronaca dell’epoca in cui dei cecchini avevano sparato sulla folla. Fu un disastro e Bogdanovich, in difficoltà nel giustificare quell’esito ha sempre dato la colpa all’assassinio di Martin Luther King, che aveva gettato una luce più tragica e grave sui cecchini (!).

La verità è che in quegli anni molti nuovi nomi stavano emergendo, giovani cinefili che avevano un’idea diversa di cosa potesse essere un regista ad Hollywood, non più solo un dipendente degli studios, assoldato per filmare sceneggiature scritte da altri, ma qualcuno che, come i colleghi europei, era all’origine del film, ne partoriva il soggetto e il cui risultato era espressione di una sua visione dall’inizio alla fine. Essere autori anche a Hollywood.

Francis Ford Coppola era stato il primo di questi nomi ad iniziare a trovare un pubblico, un successo e uno status da regista. Un pioniere.

In realtà, a parte i rapporti con i registi suoi idoli, era un tipo durissimo, un donnaiolo che ebbe diversi guai e casi di infedeltà conclamata (la sua ex Polly Platt ha parlato spesso di quel che successe con Cybill Shepherd durante la lavorazione di L’ultimo spettacolo), un artista ma anche un fanatico come molti della sua generazione in quel momento in cui tutto andava bene per loro. Così tanto da essersi fatto non pochi nemici. Uno di questi, notoriamente, era Billy Wilder. Bogdanovich ha sempre sostenuto che la ragione dell’odio tra i due fosse l’invidia di Wilder per il fatto che lui era giovane e di successo e nei suoi articoli su Esquire che lodavano i grandi registi non aveva mai parlato di lui, e di contro raccontava anche di una volta in cui incontrò Wilder per strada dopo la morte della sua fidanzata Dorothy Stratten (ex modella di Playboy, attrice in …e tutti risero e uccisa a colpi di fucile dall’ex marito) e gli disse “Sai quella storia della ragazza che è stata uccisa? La trama è tutta sbagliata, dovrebbe andare così…” e partì raccontargli come sarebbero dovuti andare gli eventi, come fosse stato un film.

Ma non solo, una delle molte frasi note di Billy Wilder è: “Non è vero che Hollywood è un posto pieno di cattiveria, in cui l’odio separa la gente. Basta un flop di Peter Bogdanovich per unire subito tutti”.

Vantarsi con Coppola e Friedkin

Ma un’altra storia, confermata da tutti i coinvolti, è ancora più rivelatoria. Qualche anno dopo il suo esordio, quando sia Bogdanovich che Coppola che Friedkin avevano fatto uscire i loro primi film di successo, tornando a casa da una festa nell’estate del 1972 i tre si sono fermati tutti al medesimo semaforo. Coppola guidava una limousine Mercedes che la Paramount gli aveva dovuto regalare dopo aver perso la scommessa sull’incasso di Il padrino, la stava battezzando con una bottiglia di champagne spruzzata ovunque assieme a William Friedkin ed Ellen Burstyn. Bogdanovich invece guidava una Volvo con la sua fidanzata. Erano eccitati dall’aver avuto tutti e tre successo con i loro ultimi film, eccitati dall’essere entrati nel mondo di Hollywood dalla porta principale. Nell’attesa del verde Friedkin si sporge dal tettuccio della limousine di Coppola e urla “Il film americano più eccitante degli ultimi 25 anni!” era una parte di una recensione di Il braccio violento della legge e poi “8 nomination e 5 Oscar incluso Miglior film”.

Bogdanovich risponde anch’egli con un pezzo di una recensione: “L’ultimo spettacolo, un film che rivoluzionerà la storia del cinema” e poi “8 Nomination e il mio film è migliore del tuo”. A quel punto ci si mette anche Coppola: “Il padrino, 150 milioni di dollari”. E vince la partita.

Quello era lo standard per il mondo di Hollywood di quegli anni.

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