Un paio di settimane fa, abbiamo avuto modo, poco prima dell’incontro tenuto a Milano da BAO Publishing, di intervistare Jeff Lemire. L’autore canadese, vero e proprio miracolo di prolificità e pluripremiato creatore di Essex County, Descender, Black Hammer e tante altre serie indipendenti, nonché importante firma per anni di Marvel e DC Comics, ha risposto così alle nostre domande.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione tutto lo staff di BAO che ha reso possibile la nostra chiacchierata.

 

Grazie mille per la tua disponibilità, Jeff, e bentornato su BadComics.it.
Ecco la prima domanda: ci sono un sacco di matti, di folli, nei tuoi fumetti. Solo per citarne alcuni, mi viene in mente il tuo recente ciclo di storie su “Moon Knight”, ma anche i tuoi eroi di “Black Hammer” sono un po’ dei freak e stai lavorando su “Sentry”, che come minimo ha grossi problemi di identità. La domanda, quindi è, si può essere degli eroi senza essere dei pazzi? E saranno i freak a salvare il mondo?

Caspita, domanda impegnativa. Non so risponderti davvero. Posso solo dirti che mi diverto molto di più quando i miei eroi hanno dei difetti profondi e importanti. Se sono troppo perfetti, non mi diverto. Non potrei mai raccontare la storia di Superman, ad esempio, perché è un personaggio che non riesco a trovare interessante, che non mi viene voglia di approfondire.

Ho la sensazione che essere pazzi, essere degli emarginati, o comunque vivere agli estremi, sia una chiave di lettura meravigliosa per un personaggio, e certamente mi dà molto più materiale per lavorarci come scrittore, oltre a un sacco di occasioni per usare il concetto di super eroe come una metafora per qualcos’altro, per quel che le persone vivono ogni giorno. Il che è molto più interessante rispetto al classico archetipo mitologico, che è grandioso ma anche già visto e meno originale.

A proposito di questo, e di “Black Hammer in particolare”, metti gli eroi in una situazione molto claustrofobica: un mondo in miniatura in cui non hanno modo di esprimere se stessi, sia come persone che come eroi. Possiamo considerare “Black Hammer” una storia sull’identità e sull’espressione della propria interiorità?

Decisamente sì, è una storia sull’identità. O, almeno, questo è un tema fondamentale. Ogni personaggio, come hai detto, fa fatica a esprimersi e non può essere se stesso. Con la possibile esclusione di Abraham Slam, che curiosamente è forse l’unico che ha l’occasione di vivere la vita per cui è nato, cosa che lo rende felice e contento. Ma Gail è intrappolata nel corpo di una bambina senza esserlo, quindi è forse il personaggio più tragico. Barbalien ha un sacco di problemi – a partire da quello con la sua sessualità – simboleggiati dai suoi poteri. Il colonnello Weird è semplicemente pazzo. Tutti fanno fatica a trovare un posto in questo mondo. Quindi, sì, sono d’accordo con te. E la domanda che ti porta a fare, tutto questo, è: davvero sono, o erano, degli eroi? Oppure recitavano semplicemente quel ruolo e adesso che il contesto non glielo permette, che il ruolo è cambiato, non sanno cosa fare? 

E, in più, in questa incertezza sull’identità, sono bloccati in isolamento. 

Esatto. Sono da soli con se stessi e con gli altri, pochi compagni. Devono fidarsi di se stessi e del gruppo, e questo li costringe a imparare qualcosa di nuovo sugli altri.

Tornando alla prima domanda, è curioso che il meno problematico di tutti sia, a suo modo, il colonnello Weird, che è il più folle di tutti.

Già. Il fatto è che lui sa tutto, e questo lo rende pazzo. O meglio, sicuramente ha una forma di follia, ma non credo che sia matto per davvero. Vede più degli altri, vede la realtà in maniera più profonda di chiunque, e questo lo rende fuori di testa agli occhi degli altri. In definitiva è solo il più consapevole di tutti. Anche della situazione in cui il gruppo è bloccato.

In “Black Hammer” dimostri di non aver paura di essere derivativo. Gli eroi della serie manifestano chiaramente le loro fonti di ispirazione. Black Hammer è Thor…

C’è anche qualche elemento di altre figure.

I Nuovi Dei, credo.

E anche un po’ di Lanterna Verde. 

Gail è chiaramente una versione di Shazam, mentre Abe è una sorta di Capitan America. In pratica, in “Black Hammer” parli della tua passione per i fumetti. Possiamo dire che parli anche un po’ di te?

Un po’, sì. Diciamo che i personaggi e la situazione in cui sono bloccati rappresentano molto della mia infanzia. Sono cresciuto in una piccola cittadina non molto diversa da quella della serie. E spesso mi sono sentito come un estraneo, un alieno, che non poteva essere se stesso come artista, o come appassionato di fumetti, perché molte volte ho riscontrato che le persone che avevo attorno non capivano assolutamente nulla di me e delle mie passioni.

Quella parte della mia infanzia l’ho portata con me, e “Black Hammer” è una grande metafora di tutto questo, oltre al fatto che ho messo gli eroi in una situazione molto simile a quella in cui io sono cresciuto, per vedere come avrebbero reagito.

Questa risposta un po’ mi rattrista, in prospettiva, perché c’è un altro argomento poco felice che trovo sia ricorrente nei tuoi fumetti, ed è la figura dei padri inadeguati. Era fondamentale in “Essex County” ed è centrale qui, in “Black Hammer”, rappresentata dalla frustrazione di Abe, che deve fare da papà e da nonno ad alcuni dei suoi amici e non trova la chiave giusta. Anche il Dottor Quon di “Descender” è un padre fuori asse e fallimentare per Tim, a suo modo.

Non essere triste. Ho avuto un padre per nulla assente. 

Bello sentirlo.

Oh, sì, è stato un padre fantastico. Ma credo che, essendo stato un bambino estremamente sensibile e un po’ insicuro, all’epoca io lo abbia percepito, forse, come una personalità non sempre rispondente a quel che io avevo bisogno, in maniera forse inconscia. Ora sono consapevole, della mia sensibilità di allora, che è sopravvissuta in me come artista. Ma, come ti dicevo, ora so che mio padre è stato grandioso. Quindi, le figure paterne sono più una metafora che un portato della mia esperienza personale.

Anche tu sei padre. Forse è un modo per metterti in discussione nel ruolo?

No. Devo dire che non sono particolarmente preoccupato per le mie performance di genitore. Ho parlato delle mie paure di diventare papà ne “Il Saldatore Subacqueo”, ma una volta che è nato mio figlio, lo sono diventato e, quasi magicamente, ho superato tante delle mie paure.

Sei un vero stacanovista che lavora a una sacco di serie contemporaneamente. Come fai?

Sono estremamente organizzato. Ho la capacità di pensare a una cosa per volta, in maniera da non farmi distrarre da nulla. E riesco a lavorare per un certo periodo a un progetto, fare tutto quel che devo, chiudere il capitolo e passare solo allora ad altro. Posso lavorare a “Black Hammer” per qualche settimana, finire un po’ di numeri, immergermi nel suo mondo completamente e, solo allora, voltare pagina e prendermi un altro impegno. Non lavoro mai al limite delle scadenze, sono sempre in anticipo su di esse, perché quel cuscinetto che mantengo mi permette di avere più libertà creativa, di mantenermi ispirato da quel che sto affrontando in quel momento.

So che stai lavorando di nuovo con Andrea Sorrentino, nel vostro terzo progetto assieme, il primo indipendente. L’ho intervistato circa un anno e mezzo fa e mi ha detto grandi cose di te. La domanda è: cosa ti ha portato a pensare che Andrea fosse perfetto per un horror come “Gideon Falls”? Sappiamo quanto Andrea sia bravo con le scene d’azione, ma perché un horror assieme a lui?

Di tutti gli artisti con cui ho lavorato, Andrea è il migliore in assoluto nell’organizzare la tavola, sia dal punto di vista compositivo che sotto l’aspetto narrativo, in una maniera che rappresenta e riflette i sentimenti e la psicologia del personaggio che ne è protagonista. Realizza vere e proprie rappresentazioni della sensibilità del personaggio nella tavola. Quindi, volendo raccontare un horror psicologico, sapendo anche quanto sia bravo con le atmosfere un po’ oscure…

In effetti le abbiamo viste emergere anche in “Vecchio Logan”.

Esatto. Ha la capacità di entrare davvero, con il disegno, nell’intimo del personaggio. E il materiale che mi sta mandando è davvero grandioso.

Hai lavorato un sacco con le major del Fumetto americano e moltissimo su progetti indipendenti, come se non volessi rinunciare a nessuna componente dei comics.

Sì, ma le cose stanno cambiando e ho deciso di allontanarmi sempre di più da DC Comics e Marvel. Ho ancora dei progetti in ballo con quest’ultima, ma poi, quando li avrò portati a termine, mi dedicherò esclusivamente alle mie cose.

Ultima domanda: notizie dal film di “Descender”, di cui si vociferava tempo fa?

La sceneggiatura è scritta e, se non sbaglio, c’è un regista designato che, tra l’altro, è italiano.

Davvero?

Sì, ma non posso dirti chi è. 

Non farlo. Sarei obbligato a scriverlo!

Al Cinema le cose vanno troppo piano, a differenza del Fumetto, che mi permette di vedere subito il risultato dei miei sforzi. Hollywood ti fa aspettare anni.

Frustrante?

No, perché non ci penso granché. Se succede qualcosa, nel mondo del Cinema, bene. Ma a me interessano i fumetti. Il resto è un di più.

 

Claudio Scaccabarozzi e Jeff Lemire