Nel corso di Lucca Comics & Games 2017 abbiamo avuto la possibilità di intervistare Jeff Lemire e Dean Ormston, gli apprezzati autori della serie Black Hammer.

Ringraziamo sentitamente lo staff di BAO Publishing per la collaborazione.

 

Ciao, ragazzi e benvenuti su BadComics.it!

Ormston – Salve!

Lemire – Oh, che nome fico!

Partiamo da “Black Hammer”, un fumetto che arriva in un momento in cui i supereroi sono praticamente ovunque, dai fumetti alla TV, al cinema. Cosa rende questa storia diversa dalle altre? Anche considerando che tu, Jeff, hai lavorato ad altre serie supereroistiche corali, come “Justice League United” ed “Extraordinary X-Men”, che, umilmente, ritengo essere nettamente inferiori a quella che avete co-creato assieme.

Black Hammer, copertina di Dean OrmstonLemire – Be’, apprezzo l’onestà e non posso dire che il tuo giudizio sia sbagliato. Credo che la validità qualitativa di “Black Hammer” risieda nell’origine stessa di questa storia, che risale a più di dieci anni fa. Quello che facevo allora erano unicamente fumetti di natura indipendente e autoriale, che mi vedevano impegnato come autore completo.

Allora, non avrei mai immaginato che un giorno avrei lavorato per Marvel o DC Comics, ma ero comunque follemente innamorato dei supereroi, e quindi pensai di provare a sviluppare la mia personalissima versione. Però, i protagonisti di “Black Hammer” sono stati creati in un momento e in un luogo molto lontani dall’ambito del fumetto supereroistico mainstream, e credo che la loro originalità si debba proprio a questo: sono nati dal punto di vista di ciò che ero all’epoca, ossia un outsider, ben lontano dal grande giro delle major.

Tornando a sviluppare “Black Hammer” anni dopo, volevo che questo aspetto della storia rimanesse inalterato, e uno dei motivi per cui ho fermamente voluto Dean a bordo con me per questo progetto è che lui non ha praticamente mai lavorato nell’ambito del fumetto supereroistico tradizionale, e il suo stesso stile si discosta molto dall’estetica più in voga oggi, richiamando invece un’estetica più vintage. Insomma, volevo portare i supereroi lontani dal loro territorio abituale, anche dal punto di vista meramente visivo.

Ormston – Jeff ha praticamente già detto tutto, e di fatto ha ragione: non sono certo un artista da fumetto classico di supereroi. Non che mi dispiacerebbe, ma semplicemente non è il mio stile. Forse sarei stato più adatto in un’altra epoca, dato che molti definiscono la mia arte come rétro.

Lemire – E io ho deciso di sfruttare al massimo il tratto di Dean per giocare ulteriormente con lo storytelling, inserendo sequenze in flashback dove l’aspetto vintage potesse essere estremizzato in modo giustificato. Perché, va detto, ci stiamo divertendo da matti su “Black Hammer”, con la libertà totale di poter raccontare i supereroi senza alcuna restrizione o imposizione da parte di editor o altri addetti ai lavori.

I protagonisti di “Black Hammer” sono ex supereroi provenienti da un mondo lontano che, catapultati in una realtà molto più simile alla nostra, si ritrovano completamente spaesati, come pesci fuor d’acqua. Col tempo, sperimentano una fase oscura delle loro vite, all’insegna della disillusione, del cinismo e persino della depressione. Come faranno a tornare eroi? Si può essere davvero eroi in un mondo come il nostro?

Black Hammer #1, variant cover di Jeff LemireLemire – Ah! Bella domanda, ma per risponderti dovrei svelarti la fine della nostra storia!

Penso che l’idea sia proprio quella evidenziare un contrasto di fondo: abbiamo preso questi personaggi di un’altra realtà, estrapolandoli di fatto dal loro contesto narrativo in stile Golden Age, per metterli in una situazione molto diversa da quella a cui erano abituati. In sostanza, li abbiamo portati nel nostro presente.

Di fatto, nel loro mondo erano come delle idee personificate, e nel nostro sono diventati degli esseri umani veri e propri. E la loro umanità, con tutti i difetti annessi, viene esaltata anche dal fatto che sono costretti a vivere insieme, come fossero una famiglia.

Dunque, noi siamo i primi a trattare i nostri personaggi come fossero delle persone reali, e da questo approccio viene fuori quasi da sé tutto il dramma e la tragedia che questi individui vivono quotidianamente. E ognuno di loro ha dei problemi davvero singolari – abbiamo una donna adulta intrappolata nel corpo di una bambina – cosa che rende il tutto più interessante, ma anche più impegnativo da gestire.

Parliamo del design molto particolare dei personaggi principali di “Black Hammer”: Dean, sei stato libero di fare tutto ciò che volevi o Jeff ti ha dato dei “paletti”?

Ormston – Sì, devo dire di essermi sentito molto libero di esplorare le mie idee in termini di design, anche se avevo come linee guida alcuni sketch fatti da un giovane autore più di un decennio fa…

Lemire – Sì, vero, colpa mia.

Ormston – Ad ogni modo, i protagonisti sono cambiati molto esteticamente dalla loro versione originale. Forse solo Barbalien è quello che è rimasto sostanzialmente inalterato.

In “Black Hammer” abbiamo dei personaggi che sono sostanzialmente immortali, data la loro longevità. Jeff, hai lavorato su un immortale come Wolverine, mentre in “A.D. – After Death” hai sviluppato con Scott Snyder una storia in cui l’umanità vince sulla morte. Che cosa pensi della possibilità di vivere per sempre: sarebbe un dono o una maledizione?

Lemire – Oh, non saprei. Secondo me nemmeno Wolverine alla fin fine lo sa. Credo che se qualcuno mi offrisse il dono dell’immortalità, alla fine rifiuterei. A costo di cadere nel più scontato dei cliché, credo che il bello della vita sia il fatto che è a termine. Certo, nessuno vuole davvero morire, e sarebbe dura dire di no, ma non credo che riuscirei a sopportare l’idea di restare in vita per sempre.

Tra i protagonisti di “Black Hammer” abbiamo un robot che è forse il più umano tra tutti. In “Descender”, abbiamo addirittura un bambino robot che in un contesto di guerra intergalattica rimane sostanzialmente il più puro tra i personaggi. Che tipo di attrazione provi verso le intelligenze artificiali e perché ti riesce particolarmente facile narrare l’umanità attraverso dei robot?

Lemire – Devo dire che non sono un grande esperto di fantascienza, tanto meno di tecnologia. Semplicemente, ho notato che mi diverto molto a inserire dei personaggi artificiali e robotici nelle mie storie.

Ormston – Specie se hanno un design rétro…

Lemire – Già, è come tornare a giocare con i personaggi della mia infanzia. In “Descender”, il fatto che Tim-21 sia un robot è inoltre puramente un pretesto: lo scopo principale è, come hai sottolineato, quello di raccontare la guerra attraverso gli occhi di un bambino.

Rimaniamo su “Descender”: cosa puoi raccontarci sull’origine di questa storia? In un momento in cui la fantascienza sta tornando di moda, forse anche in modo troppo inflazionato, come si resta originali distinguendosi da tutto il resto?

Descender vol. 1, copertina di Dustin NguyenLemire – “Descender” nasce in primo luogo dal desiderio di lavorare con Dustin [Nguyen]. Ci conosciamo da tanto tempo, e lui è una persona che stimo tantissimo, sia come artista che come essere umano. Siamo stati per anni sotto contratto con la DC Comics, ma non riuscivamo mai a ritrovarci sullo stesso progetto.

Quando ho scoperto che i nostri contratti sarebbero scaduti praticamente in contemporanea, mi pare nel 2013, gli proposi di sviluppare assieme una serie creator owned per recuperare il tempo perduto, in un certo senso. Quindi, gli chiesi cosa avesse voglia di disegnare di più, e lui mi rispose: “Robot”. Allora io replicai: “Ah, anche io amo i robot. Facciamo un fumetto con dei robot!” È stato davvero così semplice. Non ci abbiamo pensato troppo, inizialmente.

Poi, a poco a poco, la storia è nata nelle nostre menti, e vedendo ciò che era in grado di disegnare, ho spinto sempre di più sull’acceleratore, ed ecco che è nato un vero e proprio universo. Dai personaggi è scaturito progressivamente tutto quanto. Certo, prima che lui iniziasse a lavorare davvero alla storia, ci ho messo un anno a scriverla, ma tutto è nato dalla semplice volontà comune di fare un fumetto con dei robot.

Hai recentemente lasciato la Marvel, e oltre a portare avanti i tuoi progetti personali, hai fatto ritorno alla DC Comics, dove stai firmando alcuni speciali e soprattutto l’attesissima serie “The Terrifics”. Puoi rivelarci qualche retroscena sul tuo addio alla Casa delle Idee e sui prossimi progetti alla Distinta Concorrenza?

Lemire – Semplicemente, le cose finiscono. Il mio tempo alla Marvel era evidentemente terminato, e ora come ora sono concentrato soprattutto nello scrivere le mie storie. Certo, sto facendo qualcosa per la DC Comics, ma in maniera molto rilassata. Non credo che tornerei mai ai tempi in cui ero uno dei principali scrittori di una delle due major, impegnando tutte le mie energie per tenere in piedi questi universi, che non sono miei, come non sono di nessuno.

Voglio semplicemente divertirmi con progetti più di nicchia, come appunto “The Terrifics”. I fumetti mainstrem di supereroi hanno oramai perso ogni attrattiva ai miei occhi, specie da quando lavoro a “Black Hammer” e posso lavorare sulla mia versione di questi personaggi.

Ultima domanda, perché sono io per primo molto curioso: cosa dobbiamo aspettarci da “The Terrifics”?

Voglio provare a catturare lo spirito delle storie dei Fantastici Quattro di Stan Lee e Jack Kirby, che ritengo essere le migliori di sempre in ambito supereroistico. Voglio recuperare quella fantastica atmosfera avventurosa e di scoperta di cui quelle storie erano intrise. Oltre a tutto l’aspetto familiare che legava i personaggi l’uno all’altro.

I fumetti di supereroi devono essere divertenti e sbarazzini, e credo che queste fondamenta si siano perse nel tempo, ed è il motivo per cui quelli attuali vadano in malora, la maggior parte delle volte. Si sbaglia spesso e volentieri. Ed è una cosa che, come hai sottolineato all’inizio dell’intervista, mi ha riguardato anche personalmente, non lo nego. A volte si tende a rendere questi fumetti troppo seriosi, dimenticandosi la ragione stessa per cui sono nati. Voglio scrivere qualcosa che io per primo mi divertirei a leggere.

 

Jeff Lemire Dean Ormston